Qui Milano – Cosa vuol dire essere Comunità

IMG_20151019_212454Perché una comunità sia effettivamente tale è necessario che ciascuno agisca per la comunità stessa, si impegni, condivida sofferenze e gioie degli altri, metta a confronto idee e pensieri, anche litigando, anche scontrandosi. “Il sistema delle deleghe nell’ebraismo non funziona, ognuno ha le sue responsabilità come singolo e nei confronti degli altri”, ricordava ieri rav Alfonso Arbib, rabbino capo di Milano nel corso della serata inaugurale della nuova edizione di Kesher, progetto guidato da rav Roberto Della Rocca, responsabile dell’area Cultura ed educazione dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Tema centrale di questo primo e molto partecipato appuntamento di Kesher, il significato di comunità attraverso diverse prospettive ebraiche. A discutere e confrontarsi sul tema, oltre ai rabbanim Arbib e Della Rocca, i Consiglieri UCEI Claudia De Benedetti e Victor Magiar assieme a Vittorio Bendaud e Claudia Shammah. A condurre la serata il giornalista Enrico Mentana.
Prima di entrare nel vivo del dibattito tra gli ospiti, il presidente della Comunità ebraica milanese Raffaele Besso ha ricordato alla platea la maratona oratoria organizzata domani dalla Keillah per manifestare solidarietà a Israele (ore 18.00 davanti alla Sinagoga Centrale). E sull’evento della stessa natura organizzato a Roma si è espresso nelle prime battute dell’incontro Mentana, spiegando di aver partecipato al corteo in memoria della razzia nazifascista del 16 ottobre ma di non essere andato a quella davanti all’ambasciata israeliana. “Lo considero scontato che un ebreo sia solidale con un altro ebreo vittima di violenza nel mondo” ha risposto Mentana, rispondendo a chi chiedeva conto della sua scelta. Secondo il giornalista, questo tipo di eventi toccano superficialmente il problema e “non entrano dentro le cose”. Una deviazione sul tema della serata che poi si è rimessa sui binari con l’intervento di rav Arbib, incentrato sulla visione di comunità attraverso la prospettiva ebraica. “Possiamo capirne il senso attraverso un esempio negativo, quello della Torre di Babele. In quel passo si parla di unità delle persone, seppur per un motivo sbagliato ma agiscono insieme. In quel passo con ci viene detto cosa pensano queste persone ma che operano tutte per un obiettivo comune. Il senso di unità è fare insieme”. Secondo il rav dunque il punto centrale non è il pluralismo di idee all’interno di una Comunità – “è scontato che abbiamo idee diverse ed è legittimo pensare che l’altro sbagli ”- ma l’agire che deve essere supportato dal coinvolgimento emotivo.“’Non avete servito D.o con gioia’, ci dice un passo della Torah, significa che le emozioni sono fondamentali. Dobbiamo ricordarci tra le mitzvot che ogni ebreo deve rispettare c’è quella di sopportare insieme agli altri la sofferenza così come di condividerne la gioia”.
Quanto è forte questa condivisione e su che basi si fonda? È una delle domande poste da Mentana, secondo cui sull’attuale identità ebraica pesano “come macigni, l’esperienza della Shoah e la nascita di Israele” mentre sarebbero sacrificati tutti gli altri elementi che hanno caratterizzato per secoli l’ebraismo. In parte d’accordo Claudia Shammah e Victor Magiar. “Però non parlerei di macigni ma di pilastri: Shoah, sionismo e religione sono secondo me i tre pilastri della realtà ebraica”, ha affermato Magiar, secondo cui una delle sfide per l’ebraismo in futuro sarà di essere “più partecipe all’interno del dibattito pubblico, misurandosi con la società, portando la propria creatività”. Per Vittorio Bendaud, invece, la via da seguire è il ritorno allo studio delle fonti mentre Claudia De Benedetti ha dato un quadro di come la Comunità di Casale Monferrato, di cui è vicepresidente, sia riuscita a tornare alla vita negli anni Sessanta nonostante i numeri esigui: “credo che Casale, anche per l’atmosfera famigliare, sia un esempio di Comunità ebraica e lo dimostra il fatto che una delle cose che le seppur poche famiglie casalesi vorrebbero per la Keillah in futuro è un rabbino”.
Sul “cosa condividiamo” si è soffermato anche rav Della Rocca, spiegando che per “un ebreo non esistono scorciatoie identitarie, non basta commemorare la Shoah, non basta ammantarsi in una bandiera israeliana o commuoversi ascoltando l’Hatikva. A riguardo credo siano significativa le parole di Vittorio Dan Segre z.l. ‘È meno impegnativo sentirsi ebrei per via di un nonno deportato ad Auschwitz che per legarsi i Tefillin sul braccio e sulla testa tutte le mattine. Bisogna agire per affermare la nostra identità, ad esempio studiare la tradizione, imparare l’ebraico”.

d.r.

(20 ottobre 2015)