Lontano dalla negatività

Sara Valentina Di Palma Nel piccolo Tempio tardo settecentesco di Siena, edificato in stile rococò e neoclassico dagli architetti Zanobi e Giuseppe del Rosso (e se andate a visitare la centralissima chiesetta di Santa Maria del Riccio realizzata da Zanobi in via del Corso, a Firenze, trovereste non poche somiglianze tra i due edifici), si trova al centro una bellissima tevah di metà Settecento. Nel mondo ashkenazita il podio di lettura della Torah si chiama invece Bimah, torre, a ricordare il fatto che esso è rialzato e che appunto andare a leggere è una Aliat haSefer, un’ascesa fisica e spirituale, ma anche a rievocazione delle torri di Gerusalemme distrutte dai romani.
Nella Torah la prima occorrenza del termine Tevah si trova nella Parashat Noach che abbiamo letto lo scorso Shabbat, a indicare quella che noi tutti conosciamo come Arca. Il vocabolo ritorna una sola volta ancora nella Torah, per designare la cesta in cui Yocheved, la madre di Moshé, mise il piccolo per salvarlo dalla morte dei neonati maschi ebrei, decretata dal faraone con un chiaro intento genocidiario. Letteralmente il termine designa la scatola, quindi deduciamo che entrambi sono contenitori che viaggiano sull’acqua, ma che non hanno timone: a condurli verso la salvezza è il volere di D-o. Il diluvio e le acque fangose del Nilo sono i pericoli da cui Kadosh Baruch Hu salva, così come noi, agitati dalle cattive acque delle nostre preoccupazioni quotidiane e dei tentativi di tenere a bada il nostro Yetzer HaRa, l’inclinazione al male, cerchiamo di allontanare le negatività ascoltando la lettura della Torah dalla Tevah.
Tevah significa d’altronde innanzitutto parola, come a dire che Noach deve entrare nella parola di Hashem a differenza degli uomini malvagi che periranno nel diluvio, così come noi cerchiamo di migliorarci entrando nella parola della Tefillah.
Poco oltre leggiamo nella medesima Parashah di altri uomini, meno malvagi se con questo intendiamo solo l’uso della violenza dell’un sull’altro, ma altrettanto pericolosi: gli abitanti della pianura di Shinar, appartenenti alla generazione successiva a quella perita nel diluvio. Non ascoltando Hashem e la sua parola, costoro decidono di costruire una torre alta fino al cielo e, per non disperdersi (in un altro diluvio) e restare uniti, di farsi un nome, Shem – quindi forse darsi all’idolatria, mettere in discussione la sovranità di Hashem, annullare le proprie specificità individuali per confluire in un destino unico che spera di assurgere all’immortalità.
L’episodio è talmente grave da scomodare il Signore che scende a vedere la costruzione della torre, perché pur conoscendo il peccato in atto i giudici devono operare con equità, con giustizia ma anche con misericordia (Midrash Tanchuma 58, 18). Nella Birkat HaDin dell’Amidah chiediamo appunto questo, di avere nuovamente i giudici e benediciamo Hashem amante di carità e di giustizia. La punizione per gli uomini della pianura di Shinar sarà, forse proprio per carità divina, non la morte ma la perdita dell’unica lingua sacra condivisa, l’ebraico, e poi la dispersione: proprio quanto avevano paventato si avvera, perché come è detto da Salomone All’empio sopraggiunge ciò che egli teme (Proverbi 10, 24).
D-o li disperde, e Rashi interpreta spiegando che non avranno posto nell’Olam HaBa, perché hanno mosso guerra al Signore sfidandolo. A persuaderli all’impresa della torre vi era Nimrod (Pirkè d’Rabbi Eliezer 24), il quale sobilla gli abitanti di Shinar ad un’impresa folle: non solo perché D-o ha rinnovato il patto con l’uomo dopo il diluvio con l’arcobaleno e dunque gli uomini di Shinar non credono alla promessa di D-o, ma anche perché a un’eventuale nuova inondazione dettata dalla collera divina nessuno potrebbe pensare di scampare salendo su una torre o in qualsivoglia altro modo. Narra il Midrash (Bereshit Rabba 37-38) che solo uomini dalla lingua condivisa possono gettarsi in un’impresa idolatra, e pertanto la perdita della lingua sacra e la confusione di linguaggi permettono di non capirsi, e di non cadere nella tentazione di ascoltare un capopopolo suadente come Nimrod per lasciarsi ammaliare dal pensiero idolatra, unico, conformista, di chi crede di potersi innalzare sino al cielo contro D-o. Una torre potente è il nome del Signore, correrà in essa il giusto e vi verrà innalzato (Proverbi 18,10).

Sara Valentina Di Palma

(22 ottobre 2015)