La città dell’yiddish e del creolo
La letteratura, quella vera, infligge cicatrici profonde. Invade la vita, ne cambia il corso e si lascia contemporaneamente attraversare dalla paradossale enormità dell’esistenza.
La letteratura non è invenzione. A quella, purtroppo, pensa già l’esistenza quotidiana, che è sempre più grande e più dolorosa di ogni nostra più fervida fantasia. È piuttosto un modo di regolare i conti con il nostro destino, di fissare la vita e di farla scorrere in qualche modo negli argini che possono esserci comprensibili.
Giunto alla sua più difficile e più alta prova letteraria, con questo Non luogo a procedere (Garzanti editore) che arriva ora in libreria, Claudio Magris, già celebrato fra i massimi scrittori esistenti e fra le voci più autorevoli della cultura europea, prova a salire ancora un gradino. E lo fa con un romanzo che tenta di coniugare l’estremo particolare con l’estremo universale. Non è infatti la grandezza effettiva, la centralità geografica, che possa garantire l’universalità di un’idea, così come non è la tronfia celebrazione fine a se stessa del particolarismo esasperato, a dare a un’opera il respiro dell’universalità. È piuttosto lo sguardo, la sensibilità di chi si prende carico di scrivere, a fare del molto vicino un luogo dove tutti i lettori possano ritrovarsi.
Per avvicinarsi a Non luogo a procedere, il romanzo che torna all’ossessione della guerra, della violenza, della persecuzione e la legge come un maleficio inestricabile dalla vita stessa, Claudio Magris riparte da Trieste, né avrebbe potuto fare altrimenti. Triestino, e spaventosamente reale, terribilmente raggiungibile eppure inevitabilmente straniante, lo sfondo da cui prende le mosse. La Trieste contesa e calpestata, teatro delle peggiori atrocità, dello scontro e dell’incontro delle tre anime d’Europa, la latina, la germanica e la slava, casa apparentemente indifferente e silenziosa dell’unico forno crematorio che offuscò il cielo italiano, luogo per cento anni di indicibili sofferenze e inconfessabili passioni.
Triestino il personaggio, realmente esistito e che non avrebbe potuto certo abitare altrove, di Diego De Henriquez, il militare cavalleresco e ambiguo che attraversò in punta di piedi tutti i regimi e tutti gli orrori cercando di non imbracciare le armi che gli erano date, ma anzi accatastandole in un gigantesco, grottesco deposito. Quel deposito non rispondeva unicamente alla sua ansia di accumulazione, ma al grande progetto di un Museo della guerra per la pace, che appena adesso, dopo decenni di colpevole indifferenza, proprio a Trieste comincia a prendere vita. A De Henriquez, erede di un antico, nobile casato di militari portoghesi al servizio degli Asburgo e quindi di tutti coloro che ne seguirono, Magris riconosce il passo d’avvio. Ma rivendica di fronte al lettore l’assoluta libertà dello scrittore vero di inchinarsi all’originalità della vita senza ridursi per questo a esserne il copista e il fedele biografo dei propri fantasmi. Certo De Henriquez è stato un personaggio reale, o forse, per le sue estreme ossessioni, piuttosto surreale; certo è esistita la sterminata, maniacale collezione di armamenti e documenti che in parte si riuscì in seguito a mettere in sicurezza e lui ne fu il custode. Certo la sua morte a 63 anni, nel 1974, fra le fiamme di un incendio doloso, resta uno dei punti oscuri dell’Italia delle trame e delle strategie oscure. Certo il primo segmento di un museo unico al mondo che espone la sua collezione ha effettivamente aperto i battenti solo pochi mesi fa. E certo, infine, Magris non può fare a meno di restituire a Trieste il suo ruolo ineluttabile di capitale delle minoranze e della diversità, di crocevia degli intrighi e delle passioni, di baricentro, snodo e punto di terribile attrito di tutte le Europe possibili. Ma lì, a questo riconoscimento, si fermano i conti e devono limitarsi, senza cedere ad alcun compiacimento, i riferimenti. A partire da lì e molto lontano dai manierismi e dai triestinismi che abbondano soprattutto negli anni e nei luoghi dove l’ossequienza e il conformismo culturale pesa come una cappa insuperabile, spicca il volo la letteratura e allargando lo sguardo per abbracciare l’orizzonte si lascia alle spalle tutti gli impacci della cronaca.
Per questo nel libro il faticoso lavoro di riordino del Museo della guerra per la pace voluto da De Henriquez è affidato a una donna cui tocca l’incarico di coniugare l’yiddish con il creolo e di riassumere tutti i destini di coloro che portando un’identità definita hanno subito violenza, sono precipitati nella ferita della storia. Per questo i tanti terribili fatti realmente accaduti (a cominciare dalla Shoah, l’avvenimento che anche secondo l’autore rappresenta il punto estremo del destino europeo, che l’Italia becera e indifferente preferisce dimenticare, vorrebbe mettere da un canto senza averli mai affrontati) tornano in forma di romanzo e la vita, attraverso la letteratura, torna a scorrere con le sue oscenità e i suoi eroismi sotto i nostri occhi. A Francoforte gli editori di mezzo mondo prendono in mano un raro nuovo libro che vale la pena di tradurre dall’italiano.
Sfogliando con lui le pagine fresche di stampa, Magris racconta intanto di sentirsi spossato, prosciugato da questi ultimi dieci anni di lavoro e dalla fatica immensa di scoprire le carte della storia. E accetta di ricostruire alcuni degli itinerari che lo hanno portato a questo Non luogo a procedere in cui la Giustizia si fa attendere in eterno, la speranza è immancabilmente tradita, eppure la vita non sa fare niente di diverso che procedere inesorabilmente. È questo forse il libro più difficile proprio perché è un messaggio per tutti e non richiede, come nel caso di Danubio o di Microcosmi, una reale collocazione dei luoghi sulla carta geografica. Ed è forse un libro che dice di Trieste più che molte altre recenti prove letterarie la verità più profonda: che la città della letteratura in realtà non è lo stesso luogo raggiungibile in visita turistica, ma resta segnata esclusivamente negli atlanti della mente e cittadini ne sono tutti coloro che vogliono farla propria con il pensiero. E tornano fra le righe i segni che hanno colpito lo scrittore e che con amabile generosità racconta all’interlocutore. Quel numero di telefono inventato per un artificio letterario e cancellato nella correzione delle ultime bozze, perché vi rispondeva una incolpevole, ma affascinante utente. La bellezza della moglie dell’avvocato Zimmer, che nella città danubiana dai quattro nomi, oggi nella Voivodina serba del Banato (nel tedesco ormai cancellato Weisskirchen, in serbo Bela Crkva, in ungherese Fehértemplom, in rumeno, Biserica Alba), aveva quattro amanti per rispondere al richiamo di ogni possibile etnia lambita dal grande fiume. E a richiamare Magris, in un misto di risentimento, imbarazzo e commozione, è il figlio di una donna che portò quel nome e quella vita, di un personaggio letterario che all’insaputa dello scrittore visse di vita vera. Si allunga la grandezza di ombre gigantesche e sfuggenti come quelle appartenenti a Elody Oblath, Enrico Rocca, Ercole Miani, che con Carlo Michelstaedter continuano ad accompagnare Magris nell’inesorabile, incessante itinerario da Trieste al Non luogo a procedere. Proprio pensando a Miani, eroe suo malgrado della Prima guerra, dell’impresa di Fiume, della Resistenza, dell’occupazione jugoslava e della Guerra fredda, prima del congedo, l’autore condivide ancora una confidenza. “Da ragazzo lo vedevo imperturbabile al caffè e mi chiedevo, come si fa a stare davanti a una tazzina, a leggere il giornale, dopo essere sopravvissuto alle torture delle SS e delle bande fasciste”. Proprio in quegli anni Miani, che sembrava condannato a salvare perennemente da solo e sulla propria pelle l’onore nazionale, aveva deciso di rimandare le sue innumerevoli medaglie (quattro solo sui campi di battaglia del 15-18) al mittente. Nell’Italia incapace di fare i conti con la propria storia, nel paese del non luogo a procedere, non riusciva più a comprendere che uso avrebbe mai potuto farsene.
Guido Vitale
Pagine Ebraiche, novembre 2015
(25 ottobre 2015)