Periscopio – Nostra Aetate

lucreziOggi, 28 ottobre, cade un anniversario di particolare importanza, in quanto esattamente 50 anni fa, il 28 ottobre del 1965, fu pubblicata la Dichiarazione Nostra Aetate del Concilio Vaticano II, che ha indubbiamente aperto un pagina nuova nei rapporti tra Chiesa cattolica ed ebraismo, cercando di superare un passato così pesantemente segnato da chiusura, discriminazione, violenza.
Il peculiare legame genetico e simbiotico tra le due religioni fu riproposto, nella Dichiarazione, non più all’insegna delle note teorie della ‘sostituzione’ del ‘vecchio’ Israele da parte del ‘nuovo’ e della ‘cecità’ e durezza di cuore degli ebrei, ostinati nel rifiutare il nuovo messaggio della salvezza, ma con parole diverse, improntate al riconoscimento del peculiare ruolo svolto dall’ebraismo sul piano soteriologico, come realtà autonoma e vivente, e non solo come “praeparatio evangelica”. Credo che, in questa giornata, vada innanzitutto reso un tributo di riconoscenza a tutti coloro che, da entrambe le parti, hanno reso possibile tale svolta, a partire dalle due grandi anime di Jules Isaac e Angelo Roncalli, che hanno dimostrato che la storia non è solo una condanna e una maledizione, ma può anche essere cambiata dagli uomini di buona volontà.
Nonostante l’indubbia portata innovativa della Dichiarazione, sarebbe sbagliato, a mio avviso, vedere in essa un netto spartiacque tra un ‘prima’ e un ‘dopo’, tra un passato tutto di ostilità e un presente tutto all’insegna dell’armonia e dell’amicizia.
Non è così, ci sono state alcune luci nel passato e non mancano, purtroppo, ancora ai nostri giorni, consistenti ombre in una relazione che porta in se stesso il dramma e l’ambiguità intrinseci in ogni rapporto padre-figlio: amplificati a dismisura, nel nostro caso, dal fatto che il padre si ostina a non morire, rendendo il figlio – divenuto, quasi subito, tanto più forte e potente del genitore – titolare di un’eredità controversa, in quanto non si eredita da un vivente, non è prevista la sopravvivenza, sine die, del “de cuius”. E, se il padre riconosce la forza e il potere del figlio, non vede tuttavia in ciò il segno di una sua ‘verità’, e di un proprio ‘errore’. Ciò ha generato, per lunghi secoli, scandalo, fastidio, rabbia. E continua, per tanti versi, a rappresentare un problema irrisolto.
Ci sarebbe da chiedersi quale sia oggi, a 50 anni dalla Nostra Aetate, lo stato delle relazioni tra Chiesa cattolica ed ebraismo. Ma, più che fare un conteggio notarile delle luci e delle ombre, preferiamo celebrare l’anniversario con l’auspicio che lo spirito del Concilio torni a ispirare tutti gli uomini di Chiesa, e non solo in Vaticano ma anche in tutta Europa, in Asia, Africa, America e, soprattutto, in Medio Oriente, dove ce ne sarebbe proprio tanto bisogno. E, nel far ciò, vogliamo rendere omaggio a tutti quei cattolici che, già prima del Concilio, hanno saputo distillare dal Vangelo un sincero messaggio di fratellanza, e non di prepotenza, odio e sopraffazione, spesso pagando di persona, anche con la vita, per il proprio coraggio. Un nome per tutti: il sacerdote carmelitano Tito Brandsma, giornalista, educatore, filosofo e mistico, eroe della resistenza olandese all’invasione nazista, assassinato a Dachau il 26 luglio 1942 e beatificato il 3 novembre 1985 da Papa Wojtyla, alla cui figura ha dedicato un commovente libro – ora disponibile anche in edizione italiana: Il coraggio della verità: il beato Tito Brandsma, Àncora, Milano 2012 – Fernando Millan Romeral, Priore generale dell’Ordine carmelitano, nonché egli stesso attivo promotore dell’amicizia tra ebrei e cristiani (membro, tra l’altro, del Centro di Studi giudeo-cristiani di Madrid). Quando, nell’agosto 1941, i nazisti ordinarono alle autorità scolastiche olandesi di consegnare i bambini ebrei che avessero trovato rifugio nei collegi cattolici, anche se convertiti al cattolicesimo, Brandsma, in qualità di Presidente delle scuole cattoliche, mandò una circolare in cui invitava a disobbedire all’ordine, e non solo per gli scolari convertiti, ma per tutti. La sua vita, scrive Millàn Romeral, ne fa “uno di quei ‘giusti’ che (riconosciuti ufficialmente o non ancora) seppero intuire l’ingiustizia e l’irrazionalità e agirono di conseguenza”. Ed è molto importante, nell’analisi del Priore, la descrizione dei gesti di Tito non come semplici atti di misericordia o pietà, ma come inderogabili doveri di fedeltà verso la giustizia e la ragione, ogni volta che queste appaiano offese e negate.
Ci auguriamo, in questo cinquantesimo anniversario, che la voce di uomini come Brandsma e come Millàn Romeral possano essere ascoltate sempre di più dentro e fuori la Chiesa: e che il figlio, abbandonando l’adolescenziale dubbio se il padre debba essere amato o odiato, scelga di proseguire, senza ambiguità e retropensieri, sulla via di un sereno, ancorché difficile, dialogo tra adulti.

Francesco Lucrezi, storico

(28 ottobre 2015)