Belpoliti racconta Primo Levi,
la parola agli storici

ishot-1208È ineludibile, Primo Levi. E, di conseguenza, è ineludibile il confronto con l’ultimo libro di Marco Belpoliti “Primo Levi. Di fronte e di profilo”. Gli storici e critici Alberto Cavaglion e Claudio Vercelli tornano sulla grande ricerca dedicata al testimone e scrittore italiano. Un lavoro molto ampio che offre al lettore informazioni nuove e riordina i tanti scritti per restituire all’autore di “Se questo è un uomo” la dimensione del grande scrittore contemporaneo. Senza difficoltà a riconoscere il grande debito di gratitudine che tutti gli studiosi di Levi devono riservare a Belpoliti, ma nemmeno le perplessità nei confronti di un lavoro non sempre all’altezza delle proprie dichiarate ambizioni.
cavaglionPrimo Levi, lo scrittore salvato

La comunità degli studiosi di Levi (una setta di carbonari rigorosamente sabaudi, finché lo scrittore fu in vita, oggi un globalizzato e cosmopolita esercito di internauti) deve moltissimo a Marco Belpoliti. Per la prima edizione delle Opere, naturalmente, che raccoglieva buona parte delle pagine sparse, con un apparato di commento invidiabile; ma ancora di più per il numero monografico della sua rivista “Riga”, che contribuì a fare uscire per la prima volta Levi dal recinto claustrofobico della letteratura concentrazionaria e dall’altrettanto ristretto orticello dell’annosa diatriba memorialistica-letteratura che rischiava di avvitarsi su se stessa. Credo di non sbagliare nel dire che Belpoliti indirettamente aiutò Levi a liberarsi dei suoi stessi complessi d’inferiorità nei confronti della Letteratura con la L maiuscola. Con la rivista – e con i suoi primi lavori, penso soprattutto al libretto per la collana di Bruno Mondadori, costruito per lemmi come solo in parte è adesso il volume di Guanda -, Belpoliti ha portato alla setta dei carbonari un po’ stanchi per le mille battaglie perse, una ventata di giovanile baldanza. Le sue vulcaniche proposte interpretative, spesso geniali, ci hanno guidato per mano ad uscire dal recinto e a fidarsi di lui che per primo ci indicava con il dito, senza la saccenteria degli accademici, territori inesplorati della scrittura di Levi: le novelle scientifiche e fantascientifiche, la saggistica, la fiction. Credo sia un debito generale che debba essere riconosciuto, anche dinanzi ad un libro come questo che non ci ha convinto molto. Chi scrive non ha difficoltà a riconoscere quel debito di gratitudine. Se oggi sappiamo che l’opera di Levi è un poliedro, che l’immagine dello scrittore razionalista non regge più all’analisi dei testi, lo si deve in gran parte all’azione di Belpoliti. Da allora sono passati quasi trent’anni. Tutto scorre, tutti cambiamo e non leggiamo più Levi come il Levitico di una volta. Molte delle cose che io stesso avevo scritto all’indomani della morte di Levi oggi non le raccoglierei in volume perché non le condivido più (e qualche tempo fa mi è piaciuto riconoscere quegli errori: un esercizio igienico che fa bene a chi scrive di letteratura). Proprio la poliedricità che Belpoliti ci ha fatto scoprire spegne una ad una le certezze di un tempo. Per questo ho fatto un balzo sulla sedia quando ho avuto in mano questo librone, che raccoglie sistematicamente ciò che Belpoliti ha pubblicato su Levi nell’arco di un trentennio. Sì, ci sono aggiustamenti, interpolazioni, tagli, revisioni, ma l’impressione rimane. Tanto valeva allora aggiungere – e non avrebbe nuociuto -, ciò che Belpoliti ha scritto di altri autori del Novecento italiano utilizzando categorie leviane, un esercizio ricco di risultati, un campo fecondo da lui arato assai bene grazie alla luce rischiaratrice di Levi. In sintesi, chi di spada ferisce, di spada perisce. Molte delle ipotesi di lavoro lanciate a ridosso del 1987 oggi non sono più sostenibili. Mi riferisco soprattutto alle questioni dello stile, della lingua, del rapporto scienza-letteratura, della stessa annosa questione della zona grigia su cui nemmeno Belpoliti riesce a srotolare la matassa. A poco serve, l’ingenuo accorgimento di distinguere le parti del libro con caratteri tipografici differenti, giocando su tondi e corsivi, trovata che mi è sembrata banale. Meglio sarebbe stato ripristinare, aggionandolo, il lemmario del volume primigenio. La Levi-pedia che Belpoiti ha sempre avuto in mente, richiedeva un maggiore distacco dal passato e più autocritica. Del tutto fuorvianti e secondo me davvero ingenue appaiono poi le sezioni che prendono spunto da un’immagine fotografica. Una scelta leziosa, estetizzante (fastidiosa e di dubbio gusto in un caso: con le pagine che traggono spunto dal luogo, la tromba delle scale, dove Levi ha trovato la morte). Questo nuovo Belpoliti, che gioca senza riuscirci sulla categoria calviniana della leggerezza, senza più mordere quella che Levi avrebbe chiamato la carne dell’orso persuade meno, anche per le allusioni, talora troppo frettolose, gettate là senza soffermarsi con la dovuta calma. In altri termini ho l’impressione che negli ultimi anni Belpoliti abbia perduto mordente, smarrendo per strada la differenza fra la forma e la sostanza. Ciò che dispiace di più è vedere spesso affiorare tra le righe, il guizzo d’un tempo (ad esempio, nel giusto lamento, efficacissimo ancorché ridotto all’osso, in tre righe, contro l’assenza di uno studio sistematico su Levi e l’ebraismo, su Levi e Israele). Fulminei accenni a temi nuovi, a piste inesplorate, si trovano qua e là e il lettore rimpiange il cavaliere del buon tempo andato. Uno legge, per esempio, le pagine sull’uso in Levi della parodia e si aspetterebbe una campionatura sostanziosa su un tema che davvero potrebbe rivoluzionare ab origine la nostra antica convinzione di un Levi realista. Invece l’autore si limita a citare qualche titolo di una bibliografia, senza quasi accorgersi della grandezza di questa intuizione. Belpoliti passa e avanza, senza rendersi conto che la sua intuizione sulla scrittura parodica potrebbe chiarire una volta per sempre il nodo insoluto del Doppio, dell’altra metà del Centauro già in movimento in Se questo è un uomo.

Alberto Cavaglion

 

torino vercelliSu Primo Levi, e ancora oltre

Dinanzi alla nuova fatica letteraria di Marco Belpoliti, dedicata a Primo Levi. Di fronte e di profilo (Guanda, Milano 2015), va detto subito che il volume offerto al lettore potrebbe in qualche misura inibirlo. Sono centinaia di pagine che si impongono come una ripida e rocciosa montagna agli occhi dello scalatore, magari non troppo abituato alle salite impervie. Non di meno al recensore, che poi altri non è se non un lettore professionale, rendere appieno il senso dell’opera altrui risulta disagevole. Il libro di Belpoliti si presenta infatti come una sfida, rimandando ad una dialettica ancora aperta tra biografo e biografato.
Settecentotrenta pagine, che analizzano in tutto e per tutto il Levi letterato: scrittore di prosa e di poesia, saggista, notista prima ancora che testimone.
In realtà il libro aspira senz’altro ad essere qualcosa che si avvicina ad un ipertesto che, come tale, può essere scomposto e ricomposto a piacimento e l’organizzazione interna dei materiali è tale da rendere possibile una pluralità di approcci e, quindi, di fruizioni.
Si può partire dalla prima pagina e andare in progressione, scegliere i capitoli di interesse selezionandoli in base a criteri del tutto soggettivi, affrontare da subito le parole chiave più impegnative lasciando tutto il resto ad un “dopo” (oppure ad un mai), arzigogolare, navigare, accelerare o rallentare tra la miriade di sollecitazioni, interpretazioni, suggestioni e quant’altro. Più che un libro sembra una costruzione fatta di mattoncini, come il famosissimo gioco della Lego, dove alla preesistenza di una razionalità intrinseca al gioco medesimo (grazie alla quale si ottengono delle costruzioni che riproducono in scala aspetti della realtà) si può aggiungere, se non sostituire, un percorso di ragionevole intersecazione e di calibrata commistione dei materiali disponibili. Il libro è stato sicuramente pensato in questi termini, o quanto meno dà tale impressione. Comunque, così si fa fruire.
Il rimando alla chimica, dove le molecole sono parti fondamentali di un tutto, non è quindi solo un debito nei confronti della professione di Levi ma un metodo che Belpoliti fa proprio, scomponendo e ricomponendo il biografato secondo configurazioni diverse, articolate nel corso della sua esistenza e della formazione del corpo letterario di cui è autore.
Non a caso, infatti, fondamentale è il Levi letterato prima ancora che il testimone. Ruolo e figura, quest’ultima, di cui è invece divenuto nell’immaginario collettivo, insieme a Elie Wiesel, il prototipo universale. Sia pure con notevoli differenze rispetto al secondo, quest’ultimo eletto a figura quasi cristologica, mentre il primo ha per sempre consegnato la sua memoria ad una asciutta fisionomia di interprete del Novecento. Quanto tale esercizio e funzione gli risultassero tuttavia vincolanti, alla resa dei conti, è in parte fatto risaputo ma non in misura sufficientemente diffusa. A tale riguardo, il lavoro di Belpoliti si concentra sulla complessa intelaiatura letteraria che ha connotato l’intera esistenza intellettuale dell’autore torinese, cercando in qualche modo di svincolarlo da un approccio unilaterale, che altrimenti lo condannerebbe definitivamente ad un ruolo pressoché iconico. Non a caso lo scrittore aveva dovuto combattere un conflitto interiore tra l’originaria necessità, che si fece poi imperativo nel corso del tempo, di documentare l’esperienza della deportazione (trasfondendosi in un obbligo di coscienza), stabilendo continui nessi tra esistenza e scrittura e, parimenti, il bisogno di mantenere e coltivare un pudore profondo. Quest’ultimo non era solo un suo tratto caratteriale ma una sorta di difesa ad oltranza dello spazio di umanità dentro il quale proteggere la sua stessa persona dal divenire definitivamente ed esclusivamente, in tutto e per tutto, un personaggio pubblico. Belpoliti, nel suo lungo lavoro, durato almeno trent’anni, di scavo sistematico nell’opera di Levi, riesce a restituirci questa figura della complessità. Lo fa con un esercizio meticoloso e al medesimo tempo cristallino, dove i testi dell’autore piemontese sono costantemente messi in tensione e torsione con le fonti documentarie, le vicende del tempo corrente, la mutevole dimensione linguistica, i protagonisti della discussione culturale e politica. In realtà ogni capitolo ha andamenti plurali nonché diacronici, con un forte impatto documentario. Si tratta di un collage di notizie ed informazioni le quali vengono “messe in circuito”, fatte interagire tra di loro e riorganizzate in una sequenza logica.
C’è tuttavia dell’altro. Non è meno evidente in Belpoliti, infatti, il bisogno di rendicontare, dopo almeno alcuni decenni di ricorso collettivo alle sue scritture e al suo lascito testimoniale, sia la stratificazione di temi e suggestioni che si sono letteralmente accumulati nel corso del tempo, sia il transito intergenerazionale che d’ora innanzi si porrà per un “buon uso di Primo Levi”. Quest’ultimo tema, che non è un peculiare affanno dell’autore ma che il lettore può desumere dalle riflessioni derivanti dalla lettura del volume, è assai molto meno bizzarro e astratto oppure peregrino di quanto non paia di primo acchito. Poiché l’inflazione di rimandi, nel discorso pubblico, a partire dalla poesia che sta in esergo a Se questo è un uomo, recitata da certuni come una sorta di filastrocca, rischia di scioglierne la specificità in un generico richiamo ad un Levi inteso come una sorta di icona morale del tutto scissa dal rapporto con il tempo. Non solo il suo tempo ma anche e soprattutto il nostro.
Levi si interroga ripetutamente sulle radici dell’agire umano.
L’esperienza del Lager, pur nella sua specificità, gli è funzionale al porsi interrogativi che vanno oltre i recinti di filo spinato. Nell’autore torinese l’urgenza di capire non tanto il Male come categoria dell’amoralità bensì le meccaniche dell’agire umano, soprattutto in rapporto alle asimmetrie di potere, è sempre presente.
Fa premio su molto altro. Per questo la sua adozione come cronista della tragedia del Novecento risulta insufficiente. La comprensione della dimensione letteraria non può in alcun modo prescindere dall’essere stato involontario protagonista e diretto testimone di un’immane tragedia. Eppure lo sforzo di Levi è di affrancare la scrittura dal ridursi ad una sorta di obbligo di rendicontazione. Lo fa con passione, tenacia ma anche sofferenza. I testi che ci consegna sono quindi attraversati da questo conflitto persistente, che genera il significato più proprio della sua letteratura. In perenne tensione, e come tale testo aperto a letture generazionali anche differenziate, tra un doversi confrontare con quel che si è stati proprio malgrado, senza cancellare alcunché di ciò, e quanto si potrà essere, d’ora innanzi, attraverso la creazione di vita che è data dalla scrittura medesima, laddove essa libera energie inimmaginabili.
Un principio esistenziale che indica il bisogno di vita.
La quale non scaturisce dall’acquiescenza alle circostanze date, come neanche da un’inquietudine ingovernabile, fine a sé, ma dalla tensione tra il bisogno di dare dei nomi – e quindi un significato – al passato e la proiezione verso un’ariosa libertà della letteratura che è anche uno dei luoghi dove qualsiasi autore, se tale è per davvero, può trovare una ricomposizione possibile. Il Levi scrittore, infatti, non ci parla di fratture incolmabili ma di transiti possibili. Per questo, oltre che per la sua testimonianza, rimane un ineludibile segnavia della nostra contemporaneità.

Claudio Vercelli

Pagine Ebraiche novembre 2015

(30 ottobre 2015)