Qui Milano – Nel nome di Yitzhak Rabin
Il coraggio di intraprendere la via più difficile, di scegliere la strada più impervia per provare a cambiare il presente. A distanza di vent’anni dal suo assassinio, sembra essere questo uno degli insegnamenti più significativi del Primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, assassinato il 4 novembre 1995 da un estremista ebreo. Una figura diventata simbolo della speranza di una pace possibile tra israeliani e palestinesi, e di cui nelle scorse ore l’Italia ebraica ha commemorato la memoria. Tante infatti le iniziative, da Roma a Milano, dedicate al ricordo di Rabin. Nella Capitale, la Comunità ha riunito gli studenti della scuola ebraica per condividere un momento di riflessione mentre a Milano, nel significativo contesto di Palazzo Marino, è stata organizzata da Sinistra per Israele una maratona oratoria in memoria di Rabin. Alla presenza del vicepresidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Roberto Jarach, sono state molte le voci che hanno voluto ricordare il premio Nobel per la pace israeliano – tra cui i presidenti della Comunità milanese Milo Hasbani e Raffaele Besso – attraverso le sue parole o delle persone che a lui furono vicine. Per dare un segnale concreto, ha ricordato in apertura il Consigliere comunale di Milano Ruggero Gabbai portando i saluti del sindaco Giuliano Pisapia, è stata presentata in sede consigliare una mozione per dedicare un luogo della città a Yitzhak Rabin. “Il nostro auspicio è che proprio in memoria della strada tracciata da Rabin, si ritorni al dialogo tra israeliani e palestinesi”, ha affermato il giornalista Stefano Jesurum, a cui è stata affidata la conduzione della serata e che in apertura ha ringraziato il disegnatore Giorgio Albertini per l’organizzazione dell’evento.
Ad alternarsi sul palco, tra gli altri, lo storico David Bidussa, i giornalisti Gabriele Eschenazi e Anna Momigliano, i giovani del movimento ebraico Hashomer Hatzair, mentre il duo voce-chitarra Miriam Camerini e Manuel Buda hanno voluto onorare attraverso la musica la memoria di Rabin, proponendo un canto dei salmi e canzoni della tradizione israeliana. Ciascuno ha scelto un brano da uno dei celebri discorsi di Rabin (da quello tenuto a Washington quando fu siglata la pace con la Giordania alle sue ultime parole poco prima di essere assassinato a Tel Aviv) o un ricordo di chi in vita gli fu più vicino. Tra questi, l’amico Amoz Oz che definì il loro rapporto come “Un’amicizia mai facile, mai a cuor leggero o rilassata, sempre carica di aspri diverbi e violenti disaccordi. Ciononostante, fin da quella visita a casa mia riuscivo a vedere il bimbo timido dietro all’orgoglioso capo militare e al potente statista. C’era qualcosa in lui di eternamente solitario, insicuro, imbarazzato e molto suscettibile. In qualche maniera, somigliava più di me ad un giovane artista, e tuttavia c’era un lato tagliente in quell’uomo molto perspicace e talvolta estremamente feroce, robusto come un contadino, forte come una scure e ostinato come un mulo”. Ostinato, si è ricordato nel corso degli interventi, nel cercare una pace anche di fronte alla contrarietà, quando non aperta e in alcuni casi feroce ostilità, di una parte della società israeliana. Anche di fronte a una contro parte, quella palestinese, il cui leader, Yasser Arafat, non godeva della fiducia di Rabin. “Ma la pace si fa con i nemici”, affermò lo stesso leader israeliano.
A tracciare una riflessione originale, la scelta dello storico David Bidussa di leggere la lettera (riportata di seguito integralmente e scritta nel novembre del 1944) del giovane partigiano Giacomo Ulivi, fucilato dai fascisti a diciannove anni. “Un esempio – ha spiegato Bidussa – della differenza che intercorre tra i martiri e i resistenti”. I primi sono affascinati dal narcisismo, vedono gli altri solo come un mezzo e parlano di morte dei nemici. I secondi combattono per la libertà, non pensano di essere i primi o gli unici a farlo ma ritengono sia necessario farlo, e amano la vita, ha ricordato lo storico. Tra questi, Yitzhak Rabin.
Daniel Reichel
Cari Amici,
Vi vorrei confessare innanzi tutto, che tre volte ho strappato e scritto questa lettera. L’avevo iniziata con uno sguardo in giro, con un sincero rimpianto per le rovine che ci circondano, ma, nel passare da questo argomento di cui desidero parlarvi, temevo di apparire “falso”, di inzuccherare con un patetico preambolo una pillola propagandistica. E questa parola temo come un’offesa immeritata: non si tratta di propaganda ma di un esame che vorrei fare con voi. Invece dobbiamo guardare ed esaminare insieme: che cosa? Noi stessi. Per abituarci a vedere in noi la parte di responsabilità che abbiamo dei nostri mali. Per riconoscere quanto da parte nostra si è fatto, per giungere ove siamo giunti. Non voglio sembrarvi un Savonarola che richiami il flagello. Vorrei che con me conveniste quanto ci sentiamo impreparati, e gravati di recenti errori, e pensassimo al fatto che tutto noi dobbiamo rifare. Tutto dalle case alle ferrovie, dai porti alle centrali elettriche, dall’industria ai campi di grano. Ma soprattutto, vedete, dobbiamo fare noi stessi: è la premessa per tutto il resto. Mi chiederete: perché rifare noi stessi, in che senso? Ecco per esempio, quanti di noi sperano nella fine di questi casi tremendi, per iniziare una laboriosa e quieta vita, dedicata alla famiglia e al lavoro? Benissimo: è un sentimento generale, diffuso e soddisfacente. Ma, credo, lavorare non basterà; e nel desiderio invincibile di “quiete”, anche se laboriosa è il segno dell’errore. Perché in questo bisogno di quiete è il tentativo di allontanarsi il più possibile da ogni manifestazione politica. È il tremendo, il più terribile, credetemi, risultato di un’opera di diseducazione ventennale, di diseducazione o di educazione negativa, che martellando per vent’anni da ogni lato è riuscita ad inchiodare in molti di noi dei pregiudizi. Fondamentale quello della “sporcizia” della politica, che mi sembra sia stato ispirato per due vie. Tutti i giorni ci hanno detto che la politica è un lavoro di “specialisti”. Duro lavoro, che ha le sue esigenze: e queste esigenze, come ogni giorno si vedeva, erano stranamente consimili a quelle che stanno alla base dell’opera di qualunque ladro e grassatore. Teoria e pratica concorsero a distoglierci e ad allontanarci da ogni attività politica. Comodo, eh? Lasciate fare a chi può e deve; voi lavorate e credete, questo dicevano: e quello che facevano lo vediamo ora, che nella vita politica – se vita politica vuol dire soprattutto diretta partecipazione ai casi nostri – ci siamo stati scaraventati dagli eventi. Qui sta la nostra colpa, io credo: come mai, noi italiani, con tanti secoli di esperienza, usciti da un meraviglioso processo di liberazione, in cui non altri che i nostri nonni dettero prova di qualità uniche in Europa, di un attaccamento alla cosa pubblica, il che vuol dire a sé stessi, senza esempio forse, abbiamo abdicato, lasciato ogni diritto, di fronte a qualche vacua, rimbombante parola? Che cosa abbiamo creduto? Creduto grazie al cielo niente ma in ogni modo ci siamo lasciati strappare di mano tutto, da una minoranza inadeguata, moralmente e intellettualmente.
Questa ci ha depredato, buttato in un’avventura senza fine; e questo è il lato più “roseo”, io credo: Il brutto è che le parole e gli atti di quella minoranza hanno intaccato la posizione morale; la mentalità di molti di noi. Credetemi, la “cosa pubblica” è noi stessi: ciò che ci lega ad essa non è un luogo comune, una parola grossa e vuota, come “patriottismo” o amore per la madre in lacrime e in catene vi chiama, visioni barocche, anche se lievito meraviglioso di altre generazioni. Noi siamo falsi con noi stessi, ma non dimentichiamo noi stessi, in una leggerezza tremenda. Al di là di ogni retorica, constatiamo come la cosa pubblica sia noi stessi, la nostra famiglia, il nostro lavoro, il nostro mondo, insomma, che ogni sua sciagura è sciagura nostra, come ora soffriamo per l’estrema miseria in cui il nostro paese è caduto: se lo avessimo sempre tenuto presente, come sarebbe successo questo? L’egoismo – ci dispiace sentire questa parola – è come una doccia fredda, vero?
Sempre tutte le pillole ci sono state propinate col dolce intorno; tutto è stato ammantato di retorica; Facciamoci forza, impariamo a sentire l’amaro; non dobbiamo celarlo con un paravento ideale, perché nell’ombra si dilati indisturbato. È meglio metterlo alla luce del sole, confessarlo, nudo scoperto, esposto agli sguardi: vedrete che sarà meno prepotente. L’egoismo, dicevamo, l’interesse, ha tanta parte in quello che facciamo: tante volte si confonde con l’ideale. Ma diventa dannoso, condannabile, maledetto, proprio quando è cieco, inintelligente. Soprattutto quando è celato. E, se ragioniamo, il nostro interesse e quello della “cosa pubblica”, insomma, finiscono per coincidere.
Appunto per questo dobbiamo curarla direttamente, personalmente, come il nostro lavoro più delicato e importante. Perché da questo dipendono tutti gli altri, le condizioni di tutti gli altri. Se non ci appassionassimo a questo, se noi non lo trattiamo a fondo, specialmente oggi, quella ripresa che speriamo, a cui tenacemente ci attacchiamo, sarà impossibile. Per questo dobbiamo prepararci. Può anche bastare, sapete, che con calma, cominciamo a guardare in noi, e ad esprimere desideri. Come vorremmo vivere, domani? No, non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere. Pensate che tutto è successo perché non ne avete più voluto sapere! Ricordate, siete uomini, avete il dovere se il vostro istinto non vi spinge ad esercitare il diritto, di badare ai vostri interessi, di badare a quelli dei vostri figli, dei vostri cari. Avete mai pensato che nei prossimi mesi si deciderà il destino del nostro Paese, di noi stessi: quale peso decisivo avrà la nostra volontà se sapremo farla valere; che nostra sarà la responsabilità, se andremo incontro ad un pericolo negativo? Bisognerà fare molto. Provate a chiedevi in giorno, quale stato, per l’idea che avete voi stessi della vera vita, vi pare ben ordinato: per questo informatevi a giudizi obbiettivi. Se credete nella libertà democratica, in cui nei limiti della costituzione, voi stessi potreste indirizzare la cosa pubblica, oppure aspettare una nuova concezione, più egualitaria della vita e della proprietà. E se accettate la prima soluzione, desiderate che la facoltà di eleggere, per esempio sia di tutti, in modo che il corpo eletto sia espressione diretta e genuina del nostro Paese, o restringerla ai più preparati oggi, per giungere ad un progressivo allargamento? Questo ed altro dovete chiedervi. Dovete convincervi, e prepararvi a convincere, non a sopraffare gli altri, ma neppure a rinunciare.
Oggi bisogna combattere contro l’oppressore. Questo è il primo dovere per noi tutti: ma è bene prepararsi a risolvere quei problemi in modo duraturo, e che eviti il risorgere di essi ed il ripetersi di tutto quanto si è abbattuto su di noi.
Termino questa lunga lettera un po’ confusa, lo so, ma spontanea, scusandomi ed augurandoci buon lavoro.
Giacomo Ulivi
(5 novembre 2015)