Madri d’Israele – Talia

David Zebuloni, studente“Sono già passati dieci anni, è incredibile come voli il tempo, nella mia mente rivivo quegli attimi come se fossero avvenuti proprio ieri”.
Dieci anni dall’evacuazione di quel pezzo di terra, quell’oasi di pace e serenità in cui le persone dormivano tranquille, senza sentire alcuna necessità di chiudere la porta di casa a chiave.
Dieci anni dalla distruzione di abitazioni e famiglie, sogni e speranze.
“Gush Katif era un vero e proprio paradiso in terra,” racconta Talia Biton, testimone diretta di quell’evento che segnò così profondamente la storia dello Stato di Israele. “Camminavamo scalzi, sulla sabbia, avvolti da altissime palme e profumati alberi da frutta. Le case erano tutte aperte, giorno e notte, porte spalancate per chiunque volesse entrare, sentirsi in famiglia. Io all’epoca avevo dieci anni e, nel pieno della mia ingenuità infantile, non mi accorgevo di ciò che mi capitava intorno.”
Il conflitto si faceva infatti sempre più duro, l’atmosfera sempre più tesa.
Quel piccolo pezzo di terra è stato a lungo conteso tra israeliani e palestinesi. Cominciarono così i primi attentati terroristici, sparatorie in mezzo alle strade, nelle sinagoghe, nelle case.
“Entravano ovunque i terroristi, sfondavano porte e appiccavano incendi. Di notte si intrufolavano nelle abitazioni, uccidevano senza pietà chiunque capitasse loro a tiro. I miei cugini e mia zia furono vittime di quella crudeltà, solo mio zio si salvò, per fortuna, per miracolo.”
Schermata 11-2457339 alle 10.10.21Poi iniziarono a cadere i primi missili, ad essere distrutte le prime case, le prime coltivazioni, tanto floride da quelle parti.
“Il governo di Ariel Sharon non riuscì a reggere la pressione, decise dunque di evacuare quella zona, di donare i nostri terreni agli arabi, per un trattato di pace che si rivelò essere sin dal principio assolutamente inesistente, inutile. E così fece.”
Talia, la sua famiglia, i suoi amici e l’intera comunità, vennero sfrattati, esiliati da quegli appezzamenti che tanto amavano, da quelle case per le quali tanto avevano combattuto.
“Ci eravamo trasferiti in una casa nuova da soli sei mesi. Una casa grande e accogliente, per la quale i miei genitori avevano dato fondo a tutti i loro risparmi, costruendola mattonella su mattonella, sin dalle fondamenta. Ma piccola com’ero trovavo tutto estremamente divertente”, mi confida quasi imbarazzata, mortificata. “I mesi che seguirono furono così caotici, dinamici… In poche parole: ideali per una bambina ribelle quale ero io! Subito dopo l’evacuazione abbiamo abitato in tenda per sei mesi, io e le mie amiche giocavamo e mangiavamo schifezze tutto il giorno, come fossimo le protagoniste di un film d’azione.”
Realtà che invece fu decisamente più dura per i suoi genitori.
“Mia madre partorì il mio fratellino proprio in tenda, in condizioni critiche, sfavorevoli, assolutamente inadatte per un neonato. Si trasferì così da mia nonna per un po’ di tempo e ricordo che quel distacco fu difficilissimo da sopportare, nonostante mio padre facesse di tutto per colmare il vuoto da lei lasciato.”
Le sorti della famiglia Biton, tuttavia, cambiarono rapidamente.
“Abbiamo vissuto come nomadi per un ulteriore breve periodo, lo Stato ci aveva promesso un risarcimento che aspettò troppi anni prima di arrivare, ma con impegno e amore, quell’amore che da sempre caratterizza la mia famiglia, riuscimmo a stabilirci in una cittadina nel sud del paese, a ricostruire una casa, altrettanto bella e accogliente.”
Ma Gush Katif rimane nel suo cuore, indelebile.
“Con il senno di poi mi rendo conto che c’è un elemento comune tra la mia famiglia e tra le altre famiglie che riuscirono a riprendersi da quel brutto periodo senza cadere in depressione.
Le domando impaziente quale sia questo elemento comunque, questa formula magica, questa pozione segreta. Come se mi stesse per rivelare il suo più grande segreto.
“La fede”, risponde invece con una semplicità disarmante. Con un tono che, tuttavia, mi sorprende per la sua mancanza assoluta di banalità. Per l’effetto che quella parola, pronunciata senza troppa solennità, riesce a creare, riempiendo quell’attimo di silenzio in un modo straordinariamente efficace.
“La fede ha mosso ogni nostro passo, ogni nostra azione, senza mai permetterci di lasciarci andare come invece hanno fatto molte, troppe altre famiglie con un passato uguale al nostro”.
Oggi Talia sente di avere le energie adatte ad affrontare questo capitolo della sua vita con il sorriso, un sorriso che trasmette purezza, candore.
Da qualche mese si impegna per testimoniare ciò che ha toccato così da vicino la sua infanzia, parlando a cuore aperto a gruppi di ragazzi israeliani e stranieri.
“Proprio questa estate, nel giorno in cui si celebravano dieci lunghi anni dall’evacuazione di Gush Katif, ho raccontato la mia storia ad un gruppo di meravigliosi ragazzini italiani, venuti in Israele in un viaggio organizzato dal movimento giovanile Bnei Akiva. È stata un’esperienza straordinaria, per me più che per loro!”. Riconosco l’entusiasmo trasportatore nelle sue parole.
Il nostro incontro è giunto al suo termine, ma prima di congedarmi non riesco proprio a trattenermi dall’elogiare la forza del suo sorriso, così privo di alcuna forma di odio o rancore.
“Beh, sai, nella vita si può reagire in due modi a ciò che ci accade: ridendo o piangendo. Io ho sempre scelto di ridere.”

David Zebuloni

(12 novembre 2015)