La faccia e la maschera

torino vercelli Certo, Daesh, o Stato islamico, non è la ‘vera faccia’ del mondo musulmano. Semmai ne è la feccia, lo scarto morale. Dopo di che, qualche problema rimane. E non da poco. Poiché di facce i musulmani ne hanno tante quanti sono su questa terra. Non è un escamotage lirico né l’imputazione di una responsabilità a prescindere. Semmai è il riconoscimento che uno dei fattori propulsivi del sedicente Califfato sta proprio nella frantumazione della rappresentanza politica delle collettività che si riconoscono nella religione del Profeta. Frantumazione degli Stati nazionali che sono attraversati da guerre civili oramai permanenti; conflittualità persistente tra gruppi contrapposti, in continua lotta tra di loro; separazioni e divisioni che, sommandosi ad antiche linee di contrapposizione, rinnovano tensioni che si riflettono poi nel rapporto con i non musulmani. Il tutto all’interno di un’area, quella “Memo” (mediterranea e mediorientale) che, insieme all’Africa sub-sahariana e alla zona caucasica, si è candidata ad essere un serbatoio permanente di tensioni irrisolvibili. Quanto meno perdurando l’attuale disastroso (e disastrato) stato delle cose. Segnatamente, in tale disposizione di cose, il conflitto israelo-palestinese, e la sua mancata negoziazione, non è la reale matrice di tutti i problemi ma il feticcio simbolico al quale i fondamentalismi e i radicalismi si aggrappano e si riannodano per alimentare ideologicamente le proprie falangi armate e i loro tanti astanti più (o meno) disperati. Se per incanto domani fosse risolto con la bacchetta magica, verrebbe di nuovo rigenerato il giorno successivo, così come accadeva un tempo con la tela di Penelope, facendola al mattino e disfacendola di notte. Poiché senza di esso, in assenza della sua carica evocativa (non per quello che è ma per ciò che è divenuto sul piano della mobilitazione degli spiriti, delle fantasie deliranti, delle costruzioni mentali paranoidi), qualora fosse risolto non risolverebbe nulla di tutto il resto. Ovvero di ciò che gli ruota intorno, che è tanto, oramai troppo. Per essere chiari, si comprenda che non si sta affermando che la sua soluzione sia politicamente irrilevante. Tutt’altro. Semmai si evidenzia come quella vicenda aperta, peraltro tra le tante che attraversano il pianeta, abbia assunto oramai da molto tempo i caratteri di una storia al contempo mitologica e mitizzata. Che gli apparati del terrore permanente ricorrano ad essa, per ricostruire una concezione del mondo a propria immagine e somiglianza, non può stupire. Ne hanno bisogno e, quindi, si comportano di conseguenza. Da questo labirinto, pertanto, non ne usciremo fuori tanto facilmente. Dopo di che, torniamo al punto di avvio. È il mondo musulmano una realtà compatta, omogenea e, come tale, potenzialmente pericolosa in quanto tale, ossia per la sua forza numerica? Se il conteggio è esclusivamente quantitativo, c’è di che pensare. Posto anche il dato demografico e le sue proiezioni, la cosiddetta “guerra delle culle”. Contemperata dal fatto che essendo in corso una guerra guerreggiata in tanti luoghi che sono abitati da musulmani, il calo demografico sicuramente un qualche peso lì lo avrà, almeno in prospettiva. Per i siriani, ad esempio, è già così. Dopo di che, se partiamo dall’esclusivo aspetto numerico, e dalla pressione che esso gioca negli equilibri mondiali, ne trarrebbero riscontro quanti, in un passato recente come nello stesso presente, preconizzano il “tramonto dell’Occidente” con i suoi valori, i suoi interessi e la sua storia. Se la considerazione è invece un po’ più articolata, e ad onore del vero lo sforzo in tale senso si impone, la cognizione dell’esistenza di faglie di spaccatura tra gli stessi musulmani prevale su tutto il resto. Lo stesso operato terroristico, infatti, si inscrive dentro questa dinamica. Una ragione di più affinché sia luttuoso e tragico nei suoi effetti. Poiché le linee di divisione non attenuano l’impatto della violenza, semmai amplificandolo. Peraltro, quando cerchiamo degli interlocutori, al di là delle figure istituzionali, registriamo la difficoltà di capire con chi stiamo davvero parlando. Fino a non molto tempo fa i mediatori erano gli scaltri gruppi di potere che reggevano le sorti di paesi e nazioni ora in parte implosi. La guerra civile permanente è adesso il tratto unificante di quelle realtà e i processi di fazionalizzazione sono alla radice stessa dell’intensificazione del ricorso alla forza più brutale. Da questo punto di vista abbiamo a che fare con una somma di conflitti infra-musulmani. Già così era stato nell’Afghanistan sovietico, per poi proseguire in Algeria, passando per la Bosnia. Dove così, invece, non è stato, è perché qualcuno nel mentre aveva già provveduto a mettere il suo cappello, come nel caso dell’Iran, dove alla ‘rivoluzione islamica’ si era poi accompagnato un lunghissimo regolamento di conti intestino, durato per diversi anni. La tentazione di chiamare in causa l’Europa e gli Stati Uniti è peraltro troppo forte per non essere usata come carta di destabilizzazione. Puntuale, la cosa si verifica da almeno una ventina d’anni, con i primi tentativi contro le Twin Towers del febbraio del 1993, la presenza islamista nei territori della ex Jugoslavia in via di disfacimento, le guerre cecene e altro ancora. Detto questo, e tornando alle tortuosità che viviamo, la stessa nozione di comunità musulmana moderata è, alla stregua dei fatti, una comprensibile richiesta per parte nostra ma un nonsense per gli interlocutori, se tali sono per davvero, sul versante islamico. Nessun credente, infatti, ritiene di sé d’essere “moderato”, dal momento in cui si rifà alla precettistica di riferimento. Non di meno, quale sarebbe la linea di separazione tra chi (e ciò che) può essere di buon grado considerato un moderato e chi, invece, tale non lo è? La discriminante è il ricorso alla forza? Se avviene ‘a casa loro’ è accettabile mentre se tracima oltre i nostri confini non lo è più? Si crede per davvero che la violenza sistematica sia destinata a rimanere per sempre dentro i limiti di determinati spazi, laddove il tempo che viviamo, quello della globalizzazione, implica invece, tra le tante cose, la sua esportabilità pressoché permanente, insieme agli innumerevoli traffici, alle lucrose economie dell’illegalità che si legano ad essa? Oppure riteniamo che la soglia di misurazione sia il rapporto con la politica, invocando, anche per la grandissima parte dei musulmani, una improbabile secolarizzazione? La forza del radicalismo islamista sta nella sua costitutiva anima truffaldina. In società prive di mobilità sociale, cristallizzate dentro un reticolo di interessi e giochi di potere precostituiti, la detonazione e l’esplosione dei vecchi gruppi dirigenti ha sprigionato una quantità di forze incontrollabili. Il radicalismo, nella sua feroce rapacità, nella sua ferina brutalità, si presenta come il soggetto politico della rivalsa, della rivincita dei ‘dannati della terra’ contro i ‘padroni dei vapori’. Si tratta di un falso ideologico totale. Già da anni è stato rilevato come a comporre la vasta ossatura delle milizie siano, spesso, gli esponenti del ceto medio e non i segmenti proletarizzati, privi di qualsiasi autonomia. A finanziare l’economia di guerra che ne consegue sono quelle élite saldamente ancorate ai loro ruoli di privilegio. Questa è la realtà con la quale ci si trova a dovere fare i conti. Non è questione di ‘colpe dell’Occidente’ e neanche di atavicità e barbarie dell’Oriente. Per questo è tutto più difficile. Non c’è un mondo bipolare, nel quale scegliere la parte ‘giusta’ con la quale stare, ma uno specchio infranto. Rischiamo di rimanere con i frammenti dei vetri rotti chiusi dentro le nostre mani. Sospesi tra il relativismo poroso e imbelle dei sentimentalismi idioti e lo sguardo feroce dei cantori del declino, gli uni e gli altri speculari, ancorché involontariamente, ad una nuova guerra civile mediterranea, che ora ci chiama in causa direttamente.

Claudio Vercelli

(22 novembre 2015)