La definizione di terrorismo

kasamIn questi giorni in cui la paura genera mostri, e si rischia di radicalizzare il razzismo e generalizzare l’intolleranza verso il diverso da sé, una notizia confortante arriva dal Canada, paese-laboratorio di cui troppo poco si parla, esempio di modello sociale e di convivenza tra culture, religioni, identità diverse.
A Saint Peterborough, un piccolo centro in Ontario, due giorni dopo gli attentati a Parigi qualcuno ha lanciato un ordigno nella locale moschea, che ha preso fuoco e subito gravi danni, lasciando la comunità musulmana, che conta 1.000 persone, senza un posto in cui pregare.
In loro aiuto si è mobilitata la comunità ebraica. Il rabbino della Beth Israel Synagogue ha aperto le porte della sinagoga ai fedeli musulmani e si è subito attivato, insieme a un gruppo cristiano, per una iniziativa di fundrasing raccogliendo in brevissimo tempo centodiecimila dollari –ben più degli ottantamila preventivati per riparare la moschea.
Non è l’unico esempio in Canada di pacifica e amichevole convivenza tra musulmani ed ebrei. A Vancouver, per esempio, la Comunità ebraica si è attivata per aiutare i rifugiati siriani, nonostante i difficili rapporti tra Israele e la Siria. Il rabbino Dan Moskovitz ha chiesto alla sua congregazione, Temple Salomon, donazioni per i rifugiati e ha raccolto in pochi giorni 40mila dollari.
A Thornhill, sobborgo di Toronto, il Jaffari Islamic Center e Il Temple Har Zion convivono in amicizia da trent’anni. Danno assistenza ai poveri, condividono un parcheggio, e organizzano insieme momenti di preghiera, feste, dibattiti.
A Richmond, in British Columbia, c’è una strada di tre chilometri soprannominata “Autostrada per il Paradiso” (ma non quello popolato di vergini in trepidante attesa dei kamikaze..). Vi risiedono 20 scuole e istituzioni religiose di tutte le fedi. Sikh, Indù, buddisti, cristiani, ebrei, musulmani collaborano quotidianamente per promuovere la conoscenza reciproca e il dialogo. L’“Autostrada per il Paradiso” è considerata la più alta concentrazione di gruppi di fede al mondo e offre un esempio concreto di come comunità e religioni diverse possono convivere in armonia e in pace.
Questi esempi costruttivi generano una domanda. Quanto contribuiscono i media nel fomentare paura e odio? È giusto, quando parliamo di terrorismo, definirlo “terrorismo islamico”? In realtà l’Islam ha ben poco a che vedere con la sete di sangue e la rabbia di fanatici psicolabili, che vengono catalizzati da predicatori sanguinari, il cui unico scopo è il potere. Certo, parlano in nome di Allah, ma a ben guardare le storie individuali dei terroristi, è evidente che di religioso in questi ragazzi non c’è nulla. Alle loro spalle un passato di piccola delinquenza, droga, insoddisfazione. Cercano la vendetta nei confronti di un mondo in cui non riescono a inserirsi, e vengono manipolati da criminali esperti nell’utilizzo dei media, che promettono a ragazzi frustrati che sognano l’avventura e un mondo “migliore, adrenalina pura e una causa per cui battersi.
Forse sarebbe più giusto definirli terroristi e basta, ed essere noi i primi a dissociare l’Islam da queste manifestazioni di criminalità. Dare un nome, la Torah ce lo insegna, contribuisce a creare una realtà, bisogna quindi essere molto attenti nelle definizioni. Il rischio di definire l’Islam in generale il nemico è quello di crearlo davvero.

Viviana Kasam

(23 novembre 2015)