“Dove andiamo stando”

Valerio FiandraQualche settimana fa ho assistito alla prima rappresentazione di Mangiafuoco, che a sua volta è il primo tempo di un’opera ancora senza titolo, scritta da Diego Chersicola. Eravamo in pochi, il luogo era perfetto, gli interpreti adeguati, il testo eccellente. Dopo, camminando lungo il reticolo di vie e slarghi della Citavecia di Trieste, ero come sospeso. Pochi metri sopra terra, eh? Però mi sembrava di vedere meglio, più in prospettiva. Le parole sono ponti, mi sono detto.
E adesso di nuovo, sono qui in poltrona (sia benedetto Steve Jobs che ci permette di scrivere ovunque), e mi sembra di essere in volo. Sto viaggiando ancora, i miei pensieri sono leggeri, il fumo del toscano è la loro scia. Qui al mio fianco la copia del mio ‘biglietto aereo’ di 147 pagine: Il Ciclope, di Paolo Rumiz (Feltrinelli, € 15.00).
Cosa fa di un libro una macchina volante ? L’autenticità, l’urgenza, e lo stile. Vorrei avere lo spazio e le occasioni di dirvi meglio cosa siano, qui mi limito a questo: se non ci sono ve ne accorgete. Come l’amore, che sappiamo benissimo quando non c’è, e quando c’è sospende e fa vibrare.
Nel suo libro meglio riuscito da tempo – in una produzione di tenuta costante – Paolo Rumiz viaggia da fermo: recluso volontario sul faro di una piccola isola del mediterraneo, il Narrabondo triestino racconta l’avventura del vivere. È interessante, è significativo che in un libro dove l’io è così spesso pronunciato, sia invece il noi il pronome effettivo ed efficace: scommetto infatti che nessuno di noi è stato per tre settimane su un faro, ma vi sfido, mentre leggerete, a non sentirvi chiamati in causa. Siamo, come ha inarrivabilmente designato Pessoa, una sola moltitudine, e non c’è nulla di meglio della solitarietà per farci sentire per davvero in compagnia.
Mandorle tostate, caffè caldo, Malvasia, miele. Vele, luci, rombi di tuono, lampi. Accenti cechi, parole greche, canti tedeschi, balli mediorientali. Witz austro-ungarici, tombe, monti, amici di questa e di ogni altra vita. Donne. Gabbiani. Leggende, pesci, libri sacri, bestemmie benedette. Iguana, un asino, capre, ouzo, viaggiatori, barche piccole, navi. Partenze. Ritorni. Israele, Scozia, Trieste, Buenos Aires, Irpinia, Po, Boemia, Turchia…
Potrei continuare, e forse una accurata recensione del Ciclope potrebbe essere un elenco dei luoghi, fisici e mentali, che Rumiz tocca: mi diverte l’idea di una Mappa Rumitiana, bandierine a forma di scarponi, o di bicchieri, traiettorie che si incrociano e sormontano. In un celebre racconto di Borges un uomo, senza saperlo, disegna con il proprio cammino di una intera vita il proprio ritratto: forse dalle tracce di Rumiz verrebbe fuori il volto di un uomo che, singolarmente, a ciascuno sembrerebbe il proprio.
Proprio come un viaggio, questo libro ha inoltre più tappe, si può leggere a sorsi piccoli o avidi, dipende dalla sete. E, per una volta, la frase della quarta di copertina è sincera: sentirete, non avrete bisogno di capire.
Perché le parole funzionano in modo strano, e la sintassi corretta a volte è un inganno. Come doveva aver sentito, senza ancora poter capire, quel piccolo bambino che – al papà giornalista e scrittore, sempre in viaggio – chiese una volta: “Dove andiamo stando?”. Qualche anno dopo, papà ha risposto.

Valerio Fiandra

(30 novembre 2015)