Qui Torino – Comunità a confronto
La sfida di un progetto condiviso

Schermata 2015-11-30 alle 16.17.03Soddisfazione e un impulso forte a una progettualità condivisa. Nuovi spunti pratici e la sicurezza derivante dalla sensazione di poter condividere il peso di problemi e scelte non di rado complesse.
Queste le sensazioni raccontate dai relatori del convegno “Piccole Comunità crescono. Ieri, oggi, domani” organizzato a Torino dall’associazione culturale Anavim con l’obiettivo di stimolare un confronto fra coloro che quotidianamente si trovano a confrontarsi con i problemi, le difficoltà e le sfide che la gestione di una comunità ebraica di medie e e piccole dimensioni porta con sé. Dopo l’apertura dei lavori, introdotti dalla presidente di Anavim Marta Morello (che ha sottolineato proprio il valore del confronto e della sicurezza che può dare il sapere che altri si trovano a gestire situazioni simili), è stato il presidente Dario Disegni a portare il saluto della Comunità intera ai presenti e ha ricordato come un simile dibattito possa essere particolarmente importante alla vigilia del rinnovo dei vertici dell’ebraismo italiano.
Ad aprire la prima sessione, intitolata “Da ieri ad oggi… Uno sguardo d’insieme: dalle Comunità del passato all’attuale situazione dell’ebraismo italiano”, è stato lo storico Gadi Luzzatto Voghera, che ha proposto un inquadramento della storia dell’ebraismo italiano ragionando sulla sua evoluzione vista da diverse prospettive. Partendo dalle primi tentativi di autogoverno, dovuti alla necessità di imporre una tassazione e quindi alla definizione di gruppo ebraico, con una sua organizzazione pur in assenza di una reale autonomia grazie a tribunali rabbinici e a forma di controllo sociale per arrivare allo sviluppo di dinamiche sociali e culturali che sono state poi fondamentali per l’evoluzione del mondo ebraico. Si trattava di nuclei piccoli che si formavano intorno a singole persone, vere e proprie anime delle comunità dover persisteva però una spaccatura fra le piccole elite finanziarie e il gruppo sociale più numeroso. La trasformazione ebraica, in seguito all’emancipazione, è stata molto forte soprattutto dal punto di vista demografico, con una progressiva urbanizzazione e industrializzazione (rilevanti a questo proposito gli studi di Roberto Bachi e Sergio Della Pergola) che porta a un cambiamento netto nella distribuzione della popolazione ebraica, con comportamenti demografici legati in Italia a quelli della borghesia locale, con una bassa natalità infantile e bassa mortalità. Nel 1861 erano numerose le comunità medio piccole, mentre erano tre quelle di dimensioni più rilevanti, Roma, Livorno e Trieste. In tutte con l’emancipazione si è ridotta la coesione sociale, di pari passo con un affievolirsi dei legami tra gli ebrei e le comunità stesse, in un processo di assimilazione complesso e non continuativo. Si riduce l’erogazione dei servizi, e spariscono le confraternite, in una trasformazione decisa del rapporto fra la popolazione ebraica e la società, con le scuole che restano il principale luogo di aggregazione nelle grandi comunità, mentre in quelle più piccole c’è una rinascita nel 1938, in seguito alle leggi razziste, in un momento decisivo di riaggregazione e assistenza agli iscritti, con un cambio sia organizzativo che dello status stesso di ebreo, in una delle tante rielaborazioni e discussioni sia della definizione di sé che dei servizi da erogare che hanno percorso la storia ebraica.
È stato quindi il moderatore, Giuseppe Di Chio, prima di dare la parola all’assessore UCEI al Bilancio e all’Otto per Mille Noemi Di Segni, a voler sottolineare come non sia mai esistito un sistema di norme cristallizzato nel tempo, ma che invece l’organizzazione ebraica è sempre stata capace di mutare sulla scia dei cambiamenti sociali che si sono man mano verificati.
Un intervento, quello di Luzzatto Voghera, cui ha poi risposto il giurista e vicepresidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Giulio Disegni, ricordando ai presenti come le piccole comunità, dopo i picchi di iscritti dell’Ottocento, siano rimaste sostanzialmente le stesse, con una relativa stabilità anche numerica. Sono invece scomparse le comunità piccolissime come, per fare l’esempio del Piemonte, Carmagnola o Saluzzo. Mentre dal punto di vista giuridico-istituzionale sono sparite ad esempio Alessandria e Gorizia. Importante quindi avere ben chiara una mappatura dell’ebraismo italiano per riuscire a capire dove stia andando una realtà così frammentata. Va ricordato, infatti, che a parte le già citate Alessandria e Gorizia le ventuno comunità rappresentate in sede UCEI esistevano già nel 1930. Per Dante Lattes, ha ricordato Disegni, la genesi delle comunità è dovuta sostanzialmente a un “desiderio di conservare un patrimonio di idee” prima ancora che alla conservazione di un patrimonio religioso e culturale. I principi che emergono dallo Statuto dell’ebraismo italiano sono fondamentalmente due, la territorialità e l’elettività, che definiscono l’assetto democratico delle comunità. Anche l’evoluzione giuridica è stata complessa e articolata, sino ad arrivare nel 1987 alla stipula dell’Intesa con lo Stato italiano, e al conseguente diritto di rivendicare la propria specificità, con l’UCEI che non si configura come un ente sovraordinato ma che ha una funzione di coordinamento, con le comunità che oggi, a trent’anni dall’Intesa, sono una libera espressione dell’autonomia. Ma oggi una delle ipotesi possibili per semplificare la gestione delle piccole e piccolissime comunità è quella di creare dei consorzi, un’alternativa forse meno dolorosa rispetto all’ipotesi di una fusione.
È stata l’assessore Di Segni ad illustrare gli aspetti economico-finanziari del rapporto tra l’Unione e le singole realtà locali, con le piccole comunità che hanno per motivi storici un forte tratto identitario e tengono particolarmente a mantenere la propria autonomia. La grande differenziazione e complessità di gestione mal si incontra con l’aspetto prevalente della volontarietà di chi se ne occupa, portando a un forte deficit di professionalità nel modello attuale di governance. Va poi chiarita la distinzione tra il principio di sussidiarietà, verticale o orizzontale, che non può non essere accompagnato da una lettura dinamica della situazione, che vada al di là dello Statuto. L’Unione, per esempio, si occupa oltre al coordinamento anche di alcuni aspetti molto delicati come, per esempio, il progetto di unificazione del software gestionale, o della definizione del meccanismo di distribuzione dei proventi dell’Otto per Mille e dei sistemi di contribuzione. Dagli aspetti demografici alla gestione del patrimonio, non sono semplici le questioni in campo che poi – ha tenuto a sottolineare Di Segni – sono ancora più importanti e delicate nel caso di una comunità, come quella di Torino, che gestisce anche una scuola e una casa di riposo.
Linee guida, ha continuato il moderatore della sessione, che sono da tenere ben presenti, e che indicheranno la strada all’ebraismo italiano. Una strada che ha ben chiarito l’intervento del sociologo Enzo Campelli, che si è basato su una serie di slide ricche di numeri e di spunti che meriterebbero ampli approfondimenti tre punti fondamentali: gli andamenti demografici, le ambivalenze comunitarie e quelle che ha chiamato “derive antropologiche delle forme di identificazione identitaria”. Il decremento demografico, molto vario, è diversificato fra le comunità medio grandi, che hanno una flessione maggiore che supera l’otto per cento e le piccole, che hanno una sostanziale tenuta, o al limite un minimo incremento. Il dato medio del 4,1 per cento porta spesso al venir meno della massa critica che permette di erogare servizi in maniera conveniente. Nella popolazione ebraica l’età media è molto alta, con una forbice notevole rispetto alla popolazione nazionale, ma l’invecchiamento della popolazione è meno pronunciato nelle piccolissime e piccole comunità, sempre tenendo conto anche della variabile difficilmente calcolabile della non residenza degli iscritti delle piccole comunità. Fondamentale è – ha concluso Campelli – prendere coscienza dei dati sugli elementi che permettono l’identificazione, in linea con la realtà ebraica americana e anglosassone, con una prevalenza fortissima degli aspetti antropologico-culturali. Un dato che non può non far riflettere: negli Usa essere ebreo significa “essere intellettualmente curioso” per il 49 per cento dei rispondenti, mentre “osservare la legge ebraica” arriva al 19 per cento delle risposte, e “osservare casherut” solo al 14. Molto simili i dati inglesi del 2014, e analoghi – va ricordato – quelli italiani, raccolti dallo stesso Campelli nel suo lavoro del 2012, la grande analisi sociodemografica sugli ebrei italiani commissionata dalla stessa UCEI i cui risultati sono sfociati nella pubblicazione di “Comunità va cercando, ch’è sì cara” per i tipi di Franco Angeli. “Non so bene – ha continuato il professore – cosa possa voler dire avere una identità etnica, ma bisogna sapere che questo dato prevale sull’avere un’identità religiosa. È in atto una costruzione morale, sociale e antropologica che ci porta a riunirci intorno alle idee di Shoah e Israele, e alla nostra comunità. Ma parlare di comunità in Italia è un terreno scivoloso, e Shoah e Israele, temi importantissimi, rischiano però nel tempo di diventare una sorta di narrazione dalla ridotta capacità identitaria. Bisogna avere ben chiaro che nell’arco di venti o trent’anni probabilmente non saranno più idee sufficienti a tenere in vita l’ebraismo italiano”.

Ada Treves twitter @atrevesmoked

(30 novembre 2015)