Jciak – Naomi, Avi e il global warning

TCE Sono la coppia d’oro dell’attivismo ebraico americano. Lei, Naomi Klein, nipote di immigrati russi e figlia di pacifisti trasferitisi a Montreal al tempo della guerra del Vietnam, giornalista e scrittrice, è diventata un’icona con No Logo, manifesto del movimento no global e best seller internazionale. Sorretta da una bella presenza e un’intelligenza al vetriolo, da allora (era il 2000) ha infilato un successo dopo l’altro conquistando persino il plauso del Nobel Joseph Stiglitz. Più smilzo il curriculum di lui, Avi Lewis, nipote di un attivista polacco del Bund, filmaker e giornalista televisivo, già conduttore di programmi di attualità su Al Jazeera e Cbc.
Insieme, oltre ad aver generato un figlio – tanto per essere in tema, lei si scoprì incinta a Zuccotti Park, nel mezzo delle manifestazioni di Occupy Wall Street – hanno realizzato il documentario The Take (2004), dedicato alla vicenda di una fabbrica argentina rimessa in piedi da un collettivo di operati e, adesso, il documentario This Changes Everything, prodotto dal regista Alfonso Cuaròn. Ispirato all’ultimo libro di lei, Una rivoluzione ci salverà (Rizzoli), affronta la questione del cambiamento climatico e, non a caso, esce nelle sale in questi giorni, in concomitanza con il vertice sul clima di Parigi.
Interpretato dalla stessa Naomi Klein, il lavoro è frutto di un viaggio d’inchiesta che nell’arco di quattro anni ha attraversato il pianeta.
La premessa del film è provocatoria e pure un po’ antipatica. Naomi Klein confessa in apertura di essere allergica ai documentari ambientali: li trova noiosi e supponenti, soprattutto quando mostrano teneri orsi polari. This Changes Everything si sposta dunque su un altro piano e – riducendo all’osso le tesi del libro – entra nel vivo della lotta al cambiamento climatico portata avanti da movimenti sociali, associazioni, cittadini e comunità locali.
Il documentario ci conduce a incontrare Mike e Alexis, coppia del Montana alleatasi con i Cheyenne del nord per bloccare l’estrazione di combustibili fossili sul loro territorio; i residenti di New York messi in strada dall’uragano Sandy; i pescatori indiani che non possono lavorare perché le acque sono inquinate. Ecco Melachrini, casalinga greca che si batte contro l’apertura di una miniera d’oro che metterebbe a rischio sia l’ecosistema sia il turismo che dà da vivere al paese; Jyothi che nell’Andra Pradesh in India si oppone alla costruzione di una centrale elettrica a carbone che distruggerebbe il terreno da cui la comunità dipende e tanti altri.
Le storie di chi lotta contro il global warming per sopravvivere, questa è l’idea, evitano l’effetto noia da orso polare e riescono invece a trasmettere in modo immediato, empatico, profondo, la crudezza del rischio ambientale mostrandoci al tempo stesso che ciascuno di noi può cambiare qualcosa. L’idea non è originale ma è uno dei pilastri teorici della ricerca su cui si basa il libro.
Il presupposto di Naomi Klein è che “i dati scientifici non mentono: le emissioni continuano a crescere, ogni anno rilasciamo in atmosfera una quantità di gas serra maggiore dell’anno precedente… creando un mondo che sarà più caldo, più freddo, più umido, più assetato, più affamato, più arrabbiato”. Nella sua diagnosi, il global warming è alimentato dalle logiche del capitalismo contemporaneo, basato sul predominio dei combustibili fossili. Davanti a quest’idra a mille teste i gruppi ambientalisti, con le loro moderate, ragionevoli, timide negoziazioni, si sono rivelati perdenti (se non addirittura compromessi in prima persona con lo sfruttamento ambientale). La risposta – sostiene Klein – è invece arrivata, spesso in modo sorprendente, dagli attivisti di base e dalle loro iniziative.
Malgrado quest’intreccio di storie, il film – premiato al festival di Toronto dal People’s Choice Award – non ce la fa a decollare. Questo giro del mondo in novanta minuti a tratti spezza il cuore, per l’intensità drammatica di certe testimonianze, ma stenta a tradurre i grandi temi in racconti. C’è troppa roba da dire, spesso troppo complicata e la presenza in video dell’autrice non aiuta. Ritratta nell’esercizio delle sue funzioni giornalistiche (indaffarata a prendere appunti, digitare sul computer o fissare il nulla), Naomi Klein comunica distanza più che partecipazione alla lotta degli intervistati.
Si esce da This Changes Everything con il senso di una catastrofe imminente e una vaga speranza di un futuro migliore. Ma non ci si scuote di dosso un dubbio: le lotte rappresentate sono epiche e drammatiche, ciascuno però sta lottando per se stesso e per la sua immediata sopravvivenza. In che modo può essere questo il cambio di passo che serve a ridare fiato alla lotta ambientalista? Riusciremo a diventare ambientalisti solo quando, come a Pechino, l’inquinamento ci strozzerà il fiato in gola?

Daniela Gross

(3 dicembre 2015)