La politica della paura
In tempi di mutamento, e quelli che stiamo vivendo sono senz’altro tali, l’incertezza del presente e la precarietà del futuro possono condizionare enormemente la qualità della vita come del pensiero di un grande numero di persone. Molti tra di noi vivono un senso di disagio che può derivare da una pluralità di cose, a partire dall’ineffabilità e dall’incomprensibilità delle trasformazioni in atto, che tendiamo a leggere quasi sempre come una minaccia a ciò che vorremmo considerare come acquisito una volta per sempre, scoprendo invece che può essere messo in discussione in qualsiasi momento. I cantori della bellezza della globalizzazione, la quale, secondo il loro dire, avrebbe dischiuso opportunità impensabili, si confrontano adesso con gli angosciati dalle trasformazioni. I secondi sono molto di più dei primi e non è detto che siano sempre e comunque dei “conservatori”. Per innovare ci vogliono tante cose, tra cui la disposizione d’animo, le risorse culturali e materiali ma anche il senso del futuro. Quest’ultimo, a meno che non sia fantasia degli ingenui o degli illusi, non ci deriva per illuminazione ma per riscontro. Ed il riscontro sta nell’intimo convincimento, quando esso sussiste, che si possa andare oltre l’esistente per migliorare la propria e altrui condizione. Non è un convincimento scritto sull’acqua bensì il risultato delle disposizione delle cose, orientate verso un benefico cambiamento. Tale è ciò che sappiamo di potere gestire, essendone protagonisti. Certo, rimane il fatto che molti a parole si dichiarano disposti alle trasformazioni quando poi nei fatti, ossia alla prova concreta, si rivelano pervicacemente abbarbicati allo status quo. Ma fatta la tara di questa pur diffusa disposizione mentale, l’idea che possa esistere un ‘oltre’ nella nostra esistenza è fortemente motivante. Invita a fare investimenti, a cercare vie nuove, a confidare nell’impegno. Oggi, un elemento che manca nell’esistenza di molte persone, è invece proprio la speranza che il futuro possa riparare le difficoltà, le ingiustizie, le incongruenze di un presente che da certuni è vissuto come ingeneroso ed ingiusto, da molti altri comunque come insoddisfacente. Spirito dei tempi, in altre parole. Dinanzi a questo quadro, non necessariamente pessimista ma comunque accompagnato e motivato da tante, fondate perplessità, l’incomprensione di ciò che avviene intorno a noi rischia di trasformarsi nello scacco perenne della paura, ossia nella paralisi da angoscia. Siamo già troppo oltre per pensare di tornare ad essere quello che eravamo un tempo ma non siamo ancora pervenuti a qualcosa di certo per dirci diversi da quel che sappiamo di non potere più essere. La politica registra questa condizione di diffusa indeterminatezza e la traduce in parole. Non in azioni, poiché essa stessa risulta paralizzata, o comunque ridimensionata, dagli effetti del cambiamento in corso. Sembra essersi consegnata ad un ruolo ancillare, subalterno. Diventando, in tale modo, specchio delle nostre inibizioni. Per come ci fotografa l’ultimo rapporto Censis, il quarantanovesimo, siamo un Paese che cerca di difendersi come può, mettendo in campo strategie individuali o di piccolo gruppo, molecolari, frammentate e locali, in assenza di un progetto generale di sviluppo che non si aspetta più da nessuno, ancor meno da chi gli racconta di averlo e di pazientare perché presto si vedrà. Un Paese che comunque stenta a immaginare un futuro, subendo il proprio arretramento. O giocando mosse prevalentemente difensive. Di fatto viviamo ‘nell’Italia dello zero virgola’, dove la ripresa economica e sociale non decolla e gli italiani, anche quelli che hanno i soldi e le opportunità, sono sempre e comunque timorosi di investire, di spendere, di dare fiato e spazio ad un orizzonte che non sia la mera ripetizione del già visto, del già detto, del già fatto. Il fenomeno non è solo peninsulare, chiamando in causa una parte della stessa Unione europea, inibita nel fare massa critica dinanzi alle sfide del presente. Non è quindi la mera incapacità dei singoli a fare la differenza ma il senso di impotenza che accompagna interi gruppi umani. Fondamentalismi, radicalismi e identitarismi si alimentano di questo senso di stallo, avvantaggiandosene. Ricostruiscono il filo del discorso smarrito, offrono – a chi intende tessere la trama e l’ordito della sua esistenza con un tale tessuto – una prospettiva di significato, non importa quanto falsificato e manipolatorio. Di fatto, coprono un vuoto, anche se lo riempiono molto spesso di morti, reali o figurati che siano. Nella fossa comune delle speranze smarrite precipita senz’altro il buonsenso ma lievitano anche gli imprenditori politici della paura, quelli che dal trasformare le difficili sfide del mutamento in cristalli di angoscia traggono il propellente per fingere di volere rappresentare e proteggere società e comunità, nel mentre, invece, si spartiscono il dividendo della loro subalternità, impoverendole non solo del diritto ad un presente sereno ma anche e soprattutto ad un futuro possibile.
Claudio Vercelli
(6 dicembre 2015)