Il giorno e la Memoria
La notizia è recente ma il suo contenuto è, per così dire, datato: la Procura di Roma ha avviato un’indagine su una lista di proscrizione firmata da Radio Islam (sito web e incubatore del peggiore antisionismo e del negazionismo più abietto) già diversi anni fa. Della disgustosità della lista, intitolata al “monopolio ebraico sui mezzi di informazione”, non è il caso di dire più di tanto, essendo tale elemento fatto in sé ovvio. Se ne occupi la magistratura, per l’appunto, facendo ricorso all’applicazione della legge. Tuttavia, ne deriva una prima riflessione, che rimanda al rapporto tra ciò che è stato, anche solo poco tempo fa, e il come lo percepiamo adesso, nel nostro presente: la sfasatura tra i tempi in cui la lista di proscrizione fu prima redatta e poi pubblicata e quelli dell’azione penale, rischia di consegnare ai suoi estensori un’immeritata notorietà. Il dispositivo comunicativo che costoro adottano, infatti, è sempre e comunque quello di presentarsi come vittime di qualcuno o qualcosa: gli ebrei, la magistratura (“rossa”), l’intellettualità, la stessa opinione pubblica presentata come manipolata occultamente e così via. Dargli una ribalta mediatica (cosa diversa dal sottoporli ad una inchiesta ed eventualmente ad un giudizio in sede penale) è una concessione che va esattamente nel senso da loro stessi auspicato. Un po’ come quel ragazzino che, tirando un sasso contro il vetro, se ne stesse poi compiaciuto a guardare l’effetto causato e, dinanzi ad un qualcuno che gli imputasse di essere il responsabile del danno, rispondesse infine che la ‘colpa’ è del vetro che è venuto giù da solo. Sarebbe di molto preferibile che l’azione della magistratura non solo fosse più tempestiva (sappiamo peraltro delle innumerevoli difficoltà logistiche in cui versano gli uffici giudiziari) ma anche meno enfatizzata dalle testate cartacee e online le quali, a volte, cercano un po’ di clamore più che fare informazione. Anche qui, con il doveroso inciso che le inchieste non debbono mai essere occultate, ossia precluse alla conoscenza pubblica. Rimane il fatto che il sensazionalismo, qualora si dia, giovi solo a quanti si presentano come ‘perseguitati’, quando invece sono tutt’altro. Seconda riflessione, ben più impegnativa, che usa a pretesto la singola vicenda (la sfasatura cronologica tra i tempi della diffusione della lista e l’intervento della magistratura, laddove ciò che sembra ‘nuovo’ è in sé fatto già vecchio e ripetuto) per ampliare l’orizzonte del discorso e andare ben oltre, estendendo l’ordine della riflessione a ben altri confini: esiste un problema di buon uso della memoria, anzi, delle memorie. Il plurale si impone, anche in questo caso. Poiché l’inflazione di comunicazioni, di sollecitazioni, di stimoli può rivelarsi controproducente. Soprattutto nell’età di un’informazione che si vorrebbe totale e totalizzante, ossia in grado di riempire di ‘notizie’ – quindi di raccontare lo scibile umano in forma di piccole particelle di cognizione – in “tempo reale” il privato di ognuno di noi, rendendo tutti contemporaneamente edotti su qualsiasi cosa. Anche da ciò, tra l’altro, la falsa convinzione che il sapere sia sempre e comunque il viatico del giudizio, soprattutto se esso è inteso non come esercizio di una facoltà critica bensì di una condanna. A conti fatti, tale tipo di informazione, piuttosto che essere sincrona alimenta invece una diacronia esasperante, una specie di sfasatura permanente tra gli eventi e il loro racconto, quasi che il secondo potesse e dovesse riparare o porre giustizia dei primi. Nel campo della memoria, a breve come a lungo termine, parliamo infatti di una sorta di eterogenesi dei fini: partendo da alcune premesse più che condivisibili, cammino facendo si perde di vista non tanto la meta quanto i mezzi per raggiungerla, facendo in ultima battuta dell’esercizio di memoria il fine stesso (e quindi la fine) della trasmissione tra le generazioni. Non è così e non potrà mai esserlo pena, altrimenti la decadenza civile – e quindi del suo precipitato collettivo – di un complesso lavoro di costruzione della coscienza critica. Poiché la memoria non è un oggetto. Semmai è una condizione, del tutto mutevole, che interagisce con chi se ne fa carico: rimanda a quel che è stato ma, in concreto, parla di ciò che è in essere. Dando a quest’ultimo una forma sulla base dell’esperienza del tempo e del suo trascorrere. La questione è di persistente e continua attualità ma torna a ripresentarsi, in forma ancora maggiormente imperiosa, con l’approssimarsi del Giorno della Memoria che, in non poche circostanze, si è trasformato in settimana o addirittura in un mese di più (o meno) operose attività. Inutile esercitarsi in una sorta di plebiscito a favore o contro l’istituto che, dopo più di quindici anni, misura comunque le sue oggettive anchilosità. Lo abbiamo adottato e continuiamo a sentirlo come un momento condiviso. Tanto basti, al di là delle puntualizzazioni di circostanza e dei tanti, possibili distinguo. Il punto, infatti, non è questo. Quanto meno, non è solo questo. Di certo non è in un unico giorno che si possa veicolare la complessità dei processi di fondo che la memoria richiama. Sarà chiaro ai più. Vano e poi il pensare che ciò che il dispositivo della giornata vuole non solo ricordare, e men che meno commemorare, bensì semmai sollecitare, possa essere isolato e risolto con un singolo evento, che si tratti della proiezione di un film, un dibattito o cos’altro. Tutto funge ma se non è ordinato in una sequenza logica, di lungo periodo, si perde da sé in una sorta di rumore di sottofondo, dove la realtà equivale alla finzione e il vero storico si trasforma in una raffigurazione tra le molte possibili. Quindi, anche in una simulazione. Così come non si risolve la questione rimandando all’invito, in sé peraltro piuttosto prescrittivo, per cui “memoria è tutto l’anno”. Come ogni forma di assolutizzazione, anche in questo caso il rischio è che per dire “tutto, sempre e comunque”, si registri poi una sorta di annullamento di significato. Se ne sconta la perdita di intensità e di specificità, infatti. Ciò che conta, nella formazione di un individuo, è semmai il rapporto tra il vissuto della continuità e la percezione del senso delle discontinuità. Si tratta non di un dispositivo dato aprioristicamente ma di una dialettica che va costruita. Il rimando agli eventi, e ai loro protagonisti, costruisce e poi suffraga questa coscienza, quest’ultima non preesistendo ad essi come una sorta di kit etico, da attivare come si fa quando si toglie dall’imballo un computer oppure uno strumento elettronico. È infatti ingenuo pensare che basti ‘dire’ o ‘mostrare’ cose, vicende e persone per ottenere l’effetto voluto. La memoria, da questo punto di vista, non è un assemblaggio di ricordi sui trascorsi ma un codice di interpretazione del presente che va costruito anche con il concorso dei segni e delle tracce tramandateci da chi ci ha preceduto. In altre parole: un crimine, grande o piccolo che sia, non si spiega da sé. Per essere compreso richiede una strumentazione complessa, di cui ciò che chiamiamo, per l’appunto, memoria è parte necessaria ma in se stessa non sufficiente. Quanto tutto ciò sia direttamente connesso con la problematicità della cittadinanza contemporanea, è fatto evidente a chiunque voglia prendere sul serio la questione, non riducendola a problema di mera ripetizione di uno standard predefinito. C’è poi un’altra questione che non può essere omessa, ed è il rapporto che la memoria dovrebbe intrattenere con il presente medesimo. La sua funzione, infatti, non può essere quella di pacificare gli animi, quasi che il vero obiettivo fosse lo stendere un qualche velo pietoso su quel che è stato, sancendo l’azzeramento delle differenze trascorse e, soprattutto, dei patimenti subiti. Se per il testimone la memoria è, in misura legittima, anche parziale risarcimento (“la vendetta è il racconto”, diceva qualcuno) per la collettività la narrazione autenticamente proficua del passato, anche da un campo visuale in soggettiva, non può che generare più domande di quante risposte riesca concretamente a soddisfare. Spesso la domanda comune di testimonianza assolve invece alla funzione di gratificare una sorta di ‘memoria affettiva’, laddove ci si identifica con lo statuto della vittima che parla. Tutto bene a patto che si riconosca l’implicazione che questa passionale disposizione d’animo, se non mitigata dal raziocinio, può anche creare un conflitto irrisolvibile tra identificazione e comprensione. Condizione che è diversa dall’empatia. Il racconto che si riproduce da sé diventa sempre e solo quello di chi è stato sopraffatto, deprivato, annichilito. Chi lo ascolta si dispone nel senso dei ‘buoni sentimenti’, una configurazione dell’animo che sollecita l’aspettativa che la vittima sia e rimanga tale per il resto della sua esistenza. Salvo revocarne la solidarietà quando cerca di liberarsi di tale ingombrante condizione. La memoria è trasmissione attiva. La trasmissione attiva è sempre terreno di conflitti, come ad esempio ci ha egregiamente insegnato un fumetto, Maus, di Art Spiegelman. Altrimenti, ciò che nasce come esercizio critico rischia di trasformarsi in un vuoto ricorso all’emozione occasionale. La quale si consuma in un giorno, a volte in poche ore se non in alcuni minuti, salvo poi voltare pagina, del tutto immemori o smemorati ma compiaciuti dall’avere vissuto un brivido di circostanza.
Claudio Vercelli
(20 dicembre 2015)