Un libro per il sultano
Per Recep Tayyip Erdogan, presidente della Repubblica turca ma anche un po’ sultano (il titolo di califfo, che pure non gli si confarebbe troppo per ragioni di dottrina, pare gli sia stato già scippato da terzi, agenti nella regione limitrofa a quella sulla quale il leader maximo, o caro leader, ovvero duce o qualcosa del genere, vedremo meglio quale titolo gli si addica nei tempi a venire), colui del quale si dicono le peggiori cose in fondo, a pensarci meglio, “ha fatto anche delle buone azioni”. La virgolettatura è di senso, non trattandosi delle vive parole dell’esponente politico di Ankara. Il riferimento è ad Adolf Hitler, già “imbianchino boemo” (così si era espresso Paul von Hindenburg, capo di stato maggiore dell’esercito tedesco durante la Prima guerra mondiale, poi esponente del conservatorismo che aprì la porta ai nazisti, infine Presidente della Repubblica di Weimar e notaio degli interessi del fascismo tedesco), poi caporale ed infine Führer dell’impero che sarebbe dovuto durare mille anni. Di ritorno da un viaggio in Arabia Saudita, dove evidentemente di totalità e fondamentalismi una qualche cognizione debbono pure averla, ad una specifica domanda sulla preferibilità di un modello rigorosamente presidenziale – in un paese, va ricordato, di quasi ottanta milioni di anime, dove a tutt’oggi vige un sempre più precario sistema istituzionale basato sul parlamentarismo e nel quale le figure del presidente della Repubblica e quella del Primo ministro dovrebbero essere ancora rigorosamente separate – Erdogan, elogiandone le qualità, si è così espresso: “ci sono esempi in tutto il mondo e ci sono esempi anche del passato. Quando guardate alla Germania di Hitler, lo vedete”. Il nesso tra efficacia, nonché performatività, del sistema presidenziale ed hitlerismo è di per sé un indice interessante per capire come una parte delle autorità turche pensino a sé, al proprio futuro e a quello della nazione che governano. Non di meno, è un segno dello sdoganamento che alcuni aspetti del nazionalsocialismo stanno ottenendo non certo dai soliti nostalgici ma da chi pensa a sé e ai suoi come parte di un percorso imperialista in divenire. Non è un caso, peraltro, che le incaute affermazioni del presidente turco si incrocino con la “liberalizzazione” nella stampa e della diffusione (legale e formale, poiché nei fatti già era possibile accedervi senza troppi problemi) che il testo di Hitler, il Mein Kampf, decorsi e definitivamente scaduti i settant’anni che la legge prevede per ciò che concerne i diritti d’autore, può oggi godere. In Turchia il libro circola liberamente da molto tempo, essendo un volume di riferimento, tra gli altri, per l’organizzazione estremista dei Lupi grigi, il Partito di azione nazionale, Millyetçi Hareket Partisi, la cui ideologia è dichiaratamente xenofoba, identitarista e fondamentalista. Diverse decine di migliaia di copie della mediocre e bislacca opera del capo del nazismo sono parte integrante delle biblioteche del corposo ambito della destra estrema turca, alla quale Erdogan guarda con interesse per trovare diffusi appoggi, non solo in sede parlamentare, ai suoi progetti, dichiarati e non, di una radicale riforma costituzionale in senso autoritario. Peraltro, senza volere fare di tutta l’erba un fascio (littorio?) la diffusione di forze, partiti e coalizioni su ‘base tradizionale’, ad impianto populista e reazionario, è un dato che riguarda, come ben si sa, l’intera Europa e non solo. Spostando lo sguardo verso il nord, ad esempio, i governi di Ungheria e Polonia sono osservati speciali. Non c’è bisogno di aderire all’hitlerismo (cosa del tutto improbabile per Varsavia, ad esempio) affinché l’ambiguità di certe formulazioni si sciolga nell’evidente intenzionalità di governare nel nome del ‘popolo’ vincolando o addirittura distruggendo la democrazia. La Turchia contemporanea, dove Erdogan non ha (al momento) i numeri per trasformare la Costituzione del 1982, la quale assegna l’esclusività del potere legislativo alla Grande Assemblea Nazionale Turca, Türkiye Büyük Millet Meclisi, anche se con diversi correttivi, successivamente intervenuti, a favore della Presidenza della Repubblica, è un paese ancora di grande vivacità politica. Si confronta con le crisi che costellano le regioni limitrofe, da quella mediorientale alla caucasica, alimentando una golosità di cui l’attuale leadership è piena espressione. Non di meno, nel dissidio dialettico tra modernizzazione e democratizzazione, la scelta del primo polo a scapito del secondo è oramai un fatto diffuso, a tratti quasi di senso comune, non solo in Turchia. Il ritorno di Hitler, allora, non è la riproposizione di un regime storicamente esauritosi bensì la vecchia, inossidabile idea che l’autorità non sia il prodotto dell’autorevolezza che le classi dirigenti si debbono conquistare sul campo bensì il tasso, variabile così come si fa con il ricorso ad un rubinetto, di autoritarismo e centralismo, monopartitismo (agognato) e dirigismo, populismo e fondamentalismo, quest’ultimo a base laica o religiosa che sia. In questo, e nell’ossessivo richiamo alla presenza di un nemico interno, di una minaccia onnipresente, di forze ostili che minerebbero la compattezza della ‘amata patria’, ci sono quelle risorse dalle quali, allora come oggi, si attinge per governare attraverso la paura. Anche per tale ragione il lucido delirio di un libro sconclusionato, feroce e incongruente al medesimo tempo qual è il Mein Kampf, rimane di attualità. Non per quello che dice ma per come lo fa, ossia abbaiando.
Claudio Vercelli
(3 gennaio 2016)