Le bufale e i bisonti

torino vercelliCi sono molte considerazioni da fare rispetto all’informazione e, più in generale, alla comunicazione online.
La questione della distinzione tra realtà e rappresentazione, in sé comunque molto complicata a prescindere dallo stesso web, costituisce un tema capitale.
Poiché la virtualità si basa sulla sistematica rappresentazione dell’ordine delle cose e non sulla loro esperienza concreta. Non di meno, induce in non pochi fruitori l’impressione (decisamente errata) di dominare la conoscenza del mondo per il tramite stesso di averlo a portata di un click del mouse.
Si ha una rappresentazione, in questo caso, quando si raffigura un oggetto, una situazione qualsiasi, una persona, una o più relazioni sempre e comunque in loro assenza. Si ricorderà il celeberrimo quadro di René Magritte, “Ceci n’est pas une pipe”. Si tratta di una sfida cognitiva e sensoriale: il quadro, in effetti, raffigura una pipa. La raffigura, per l’appunto.
Non è una pipa vera ma una sua rappresentazione. A rendere complicato sul piano logico ciò che altrimenti sarebbe per molti immediatamente ovvio (l’evidenza di una pipa) è l’impatto provocatorio e inquietante che tale rappresentazione ha sull’osservatore, laddove la dicitura sottostante parrebbe smentire l’evidenza medesima.
“Cosa c’è sulla tela se non una pipa?”, si chiede l’osservatore. Ma è sulla tela, non nei fatti. Questo ci comunica Magritte, a volere dire che un conto è un oggetto, un conto la sua immagine. La qual cosa non implica che la seconda sia di per sé falsa, o comunque manipolata, ma costituisce senz’altro un ‘a priori’, un punto di vista su ciò che chiamiamo ‘realtà’. Non la realtà in quanto tale.
Anche se noi sovrapponiamo quest’ultima alle sue raffigurazioni. Per renderci l’esistenza ancora più complessa, potremmo comunque dire che la realtà medesima è il prodotto di una serie di raffigurazioni condivise. Tuttavia non siamo qua per produrre una teoria filosofica. Piuttosto, ancora una volta si ripropongono alcune questioni di fondo con le quali, molto concretamente, tutti noi dobbiamo confrontarci.
Il web è un flusso pressoché ininterrotto di informazioni. Le quali, per la loro stessa natura di dati che si presentano con un andamento sì continuo ma non necessariamente congruente, si legano tra di loro spesso in maniera disordinata, si sovrappongono, a volte si smentiscono vicendevolmente. L’età dell’informazione di massa è divenuta, al di là di quanto i facili profeti e i numerosi soloni dell’equazione tra notizia e libertà andavano profetizzando, un guazzabuglio di sollecitazioni. Senza un codice condiviso, tutto ed il contrario di tutto rischiano di equivalersi.
Così nelle oramai innumerevoli mistificazioni alle quali la rendicontazione fotografica (quella che dovrebbe invece testimoniare in maniera ‘incontrovertibile’ quanto è successo, tanto più se una tragedia) si presta.
Rispetto ai conflitti mediorientali ne abbiamo avuto, anche recentemente, numerosi (e squallidi) esempi. Dopo di che, al di là dei calcoli di bassa cucina politica che alimentano i singoli episodi, il loro riproporsi ossessivo impone qualche considerazione. In genere lo sforzo che si fa per porre almeno un argine alle specifiche manifestazioni di alterazione delle cose è il cercare di controbatterle razionalmente, almeno finché risulta possibile (rara è la capacità di mantenere un’olimpica calma dinanzi al dilagare delle provocazioni).
Dopo di che l’impalcatura di un abbozzo di scambio di ‘opinioni’ crolla velocemente e in maniera indecorosa, tra invettive e, frequentemente, insulti. Cercare di ricondurre ad un senso condiviso le provocazioni è come tentare di svuotare il mare con il proverbiale cucchiaino. Poiché colpiscono nell’indistinto, in quanto si alimentano della loro stessa inverosimiglianza. Un ballon d’essai, come direbbero i francesi.
Quand’anche esse abbiano un qualche grado di apparentamento e condivisione al verosimile, sono sostanzialmente indimostrabili perché basate sulla circolarità delle argomentazioni che le sorreggono. In tale modo rendono la viralità, ossia il grado di diffusione di una qualsiasi informazione nel web, uno strumento con il quale inzaccherare qualcosa o qualcuno, fatto sul quale – se ne può stare certi – un buon numero di fruitori si getterà a sprone battuto ogniqualvolta se ne presenti l’occasione. Anche quando non hanno da rivendicare nessun risarcimento per una qualche offesa subita, ovvero fosse solo per il fatto di mettere qualcosa o qualcuno alla berlina.
Chiamiamo quindi in tale contesto ‘provocazione’, con un termine che rimanda agli effetti di certi affermazioni destituite di fondamento, il diffondersi sistematico di bufale; il loro ripetersi maniacale; ancor più, il costituire, sommandosi le une alle altre, il regno non solo dei creduloni ma anche e soprattutto di una sorta di ‘verità altra’, capovolta e come tale suadente e seducente. C’è chi ha detto che il delirio è come il guano degli uccelli marini e le feci dei piccioni: ne viene prodotto di più di quanto se ne possa spalare via. Anche impegnandosi alacremente. Si deposita, incrosta ciò su cui riposa, intossica l’ambiente fino a renderlo saturo di miasmi potenzialmente tossici.
L’idiozia online, così come la deliberata falsificazione (le due cose, una volta messe in circolazione, si alimentano vicendevolmente, celebrando un matrimonio d’affetti, l’unica manifestazione per davvero sincera che possano offrire), sono tentazioni che riposano non solo sulla malafede ma, in certi casi, anche sulla convinzione che effettivamente una cosa esista a prescindere da qualsiasi verifica. Esiste perché la si pensa e la si vuole come se fosse una cosa concreta. La congiura degli ebrei, e gli ebrei che congiurano ‘tra di loro’, per ‘naturale vocazione’, appartengono a questa diffusa disposizione d’animo (e di fantasia). Non di meno, se anche una qualche verifica ne smentisce l’esistenza, allora – verrà ribattuto -, è perché le motivazioni di tale verifica sono di per se stesse truffaldine.
Qualsiasi produttore di menzogne, come qualsivoglia credente in quelle stesse panzane, completa infatti il suo quadro di significati riversando contro i suoi critici l’accusa di inattendibilità. È parte integrante della strategia della bufala, infatti, affermare che i falsificatori sono gli stessi demistificatori.
Non si tratta di un esercizio di corredo, di un supporto occasionale, ma del cuore medesimo della finzione: in tale modo si sposta il baricentro polemico e lo si imputa a chi vorrebbe porre termine alla manipolazione. Non di meno, un altro criterio rilevante è di aprire continue parentesi o incisi, corredando il discorso di sfibranti rinvii o rimandi a qualcosa che di per sé dovrebbe certificare se non la veridicità di ciò che si dice quanto meno un suo accettabile grado di attendibilità. L’effetto indotto in chi è costretto continuamente a replicare è prima di spossamento e poi di demotivazione.
Nulla è mai sufficiente, per così dire, in una lunga catena di botte e risposte, dove la vera posta in gioco non sta nel dimostrare chi ha per davvero la ragione dalla sua parte ma chi è capace di chiudere per ultimo la ‘discussione’, facendo credere di avere detto non solo l’ultima parola in ordine cronologico ma anche quella più attendibile sul piano logico nella polemica in corso. Il risultato ottenuto in chi osserva è quello di sentirsi indotto a credere in qualcosa per il fatto stesso che sia ripetuto inflattivamente. Contro-argomentare con i falsari, i complottisti, i cialtroni ma anche i creduloni è un esercizio molto oneroso.
Vuol dire dovere compiere uno sforzo sovraumano, mobilitando una quantità di risorse incredibili. Il problema del bilancio tra vero e falso, e della capacità di imporsi del secondo sul primo, sta anche nel fatto che la competenza è più costosa dell’incompetenza. Inoltre, rassicura assai di meno di quest’ultima, la quale ha invece la pretesa di essere onnicomprensiva, ovvero di garantire un’interpretazione e una comprensione totale di tutti gli accadimenti della vita. Il modello di riferimento, al riguardo, rimangono i “Protocolli dei savi anziani di Sion”, i quali offrono un modello conchiuso, intimamente coerente, assolutizzante, nella ‘comprensione’ dei fatti accaduti dopo la caduta dell’Ancien Régime come, non di meno, delle presunte ragioni della sua consunzione. Il rapporto tra competenza e incompetenza nella formazione dell’opinione condivisa è, per certi aspetti, il medesimo che intercorre tra democrazia e totalitarismo. Se la prima è poco o nulla seduttiva, la seconda è fortemente attrattiva. Se la prima è (o dovrebbe essere) laica e pluralista, la seconda è metallicamente monodirezionale e verbosamente ideologica. Se la prima è riflessiva, la seconda è impulsiva. Non di meno, la seconda incanala la rabbia che molte persone portano con sé e che nel web trova libero sfogo.
La furia ossessiva con la quale qualsiasi bufala, tanto più quelle complottiste, è difesa, spesso rivela che c’è un di più rispetto al semplice bisogno di fare opinione, ancorché traviata: si tratta semmai di credere, ovvero di rispettare ed eseguire con costanza, un esercizio di fede che non deve essere scalfito da qualsivoglia riscontro. Si sa che l’affermazione implacabile dei convincimenti più intimi si accompagna, tanto più quando questi sono palesemente fallaci, in un rapporto direttamente proporzionale, alla crescente furia con la quale sono difesi.
Aumentano gli uni, s’incrementa l’altra, come il tono della voce quando una conversazione va degenerando. In poche parole: maggiore è il tasso di cretinerie che si vogliono sostenere, più alto è il volume con il quale si pronunciano. Come in una cena dove i sobri si fanno prima alticci e poi ubriachi, arrivando ad affermare che gli asini volano. L’aggressività, peraltro, non è solo un metodo o una componente accessoria ma il materiale principale con il quale si costruisce un perimetro difensivo dietro il quale trincerarsi. Alle obiezioni, alle reazioni e alle risposte altrui si obietterà – quindi – sempre e comunque che si tratta di indebite intromissioni nella propria costruzione logica, che di per sé non deve dimostrare nulla, potendosi auto-sostenere, in una sorta di evidenza incontrovertibile. Il nocciolo di questa presunta esplicatività, di questa chiarezza che si vuole immanente, a conti fatti, è la stessa foga con la quale bufale e menzogne vengono ripetute come se fossero autentiche professioni di fede, precetti insufflati, privi di qualsiasi riscontro, fatti invece passare per assolute ‘verità’ e incontrovertibili ‘realtà’.
La determinazione aggressiva è quindi il vero metodo di ricerca e comunicazione. Ed è anche ciò che si intende trasmettere, ossia il contenuto della comunicazione, anche qui in una facile equazione per cui una cosa è tanto più credibile quanto non solo viene ripetuta ma è apertamente urlata. Si tratta del vecchio criterio, mai venuto meno, del venditore di porzioni magiche al mercato del villaggio. Funzionava nel passato e, con opportuno maquillage, continua a ripetersi nel presente della post-modernità. La finzione, per prendere una forma plausibile, deve però offrirsi come una verità ‘scomoda’.
È all’opera, in questo caso, un meccanismo di identificazione con la scienza, trasformata in “scientismo”. L’acquisizione scientifica di specifiche cognizioni è stata, in più di un’occasione, il prodotto di una faticosa ricerca, un tortuoso cammino, a volte ostacolato nella misura in cui poteva porre in discussione le convinzioni precedenti non meno che gli interessi da esse tutelati.
Da ciò – ed è il meccanismo dell’identificazione per traslazione che è alla base delle menzogne – si fa derivare l’erroneo presupposto per cui ogni dichiarazione sconvolgente sia in quanto tale costituita di un qualche fondamento; fosse anche solo per il fatto stesso che destabilizzerebbe qualcosa o qualcuno. Si scambia deliberatamente l’irritazione o la sorpresa altrui per un riscontro di veridicità del proprio dire. Della serie: se si sconcertano allora è perché si va dicendo qualcosa di tanto scomodo quanto fondato. Omettendo invece il fatto che l’unico autentico fondamento di questo riscontro è il fastidio che la maniacale ripetizione di certi assunti, altrimenti privi di fondamento, ingenera in chi li subisce. Il circuito che questo atteggiamento concretamente reitera è infatti quello della rabbiosità, che diventa il trait d’union tra chi dice una cosa e chi la controbatte, in una sorta di gioco all’infinito, dove il vero nesso non è ciò che si afferma di avere reso argomento di discussione bensì il livore con il quale si impongono e si ripetono affermazioni non comprovabili. Su questo piano a sembrare di vincere è comunque chi provoca, non chi reagisce alla provocazione. Il provocatore non vuole convincere, vuole semmai vincere nell’eterno gioco all’oca che intavola ed intrattiene con i suoi contraddittori. Cerca spettatori plaudenti e, in genere, li trova. A loro, in realtà, si rivolge, e non ad altri.
Non intende convertire a sé chi già sa che egli è un mistificatore; semmai intende sedurre chi lo osserva, magari trasportato dall’abilità con la quale spariglia le carte, intorbida le acque, confonde l’orizzonte delle cose. La seduzione intellettuale, infatti, non è necessariamente un esercizio razionale bensì un ammaliamento emotivo travestito da esercizio di alta intelligenza. I bari, alla tavola del poker, sono abilissimi. Sanno come manipolare la situazione; tuttavia, la loro intelligenza nulla toglie al fatto che siano dei deliberati e consapevoli falsificatori. L’ossessività sta dentro questa modalità di condotta, che è anche una forma mentale con la quale ci si rapporta fideisticamente alla realtà sociale, alla complessità della vita, alla varietà dell’esistente. Chi diffonde bufale è un cinico e furbastro manipolatore oppure è un idiota che crede per davvero alle scempiaggini che va affermando.
La seconda condizione è, a conti fatti, ben più pericolosa della prima. Poiché si alimenta ipertroficamente del riscontro del fastidio altrui, molto spesso perlopiù dovuto alla ripetitiva maniacalità con la quale le infondatezze o le falsità vengono propalate, ripetute, a tratti imposte nel discorso collettivo, come se costituissero delle priorità assolute. Se per una prima volta si può accettare come occasionale stravaganza l’affermazione priva di fondamento, la sua trasformazione in assioma di fede diventa un’insopportabile intromissione nella lingua comune, nei codici condivisi, nelle relazioni interpersonali. Per l’appunto, ha una natura fortemente virale e tossica. Punta a scatenare la reazione rabbiosa perché in tale modo chi provoca trova riflesso nell’atteggiamento altrui ciò che ne motiva quello proprio, ossia l’ostilità.
Il fatto che si trascenda velocemente verso il grado zero della discussione deriva non solo dall’inconsistenza dell’interlocuzione ma dal bisogno di manifestare, attraverso il livore, quel senso d’impotenza che è tipico di qualsiasi disposizione d’animo frustrata, priva di disposizione dialogica. L’apparato concettuale del cospirazionismo, nel suo lucido delirio, in quanto forma di falsa razionalità che si ammanta di spirito critico quando, invece, è solo un’iperbole polemica senza sostanza, rivela la sua natura di rivestimento dell’incapacità di relazionarsi al reale senza filtri ideologici.
Si tratta di una forma di razionalizzazione deviata, dove il nocciolo non è la comprensione, fatto che presupporrebbe uno scambio, bensì la contrapposizione pretestuosa, quella che deriva dall’assolutizzazione della propria posizione. Una parte degli stessi conflitti politici in atto nel mondo si alimenta anche di questo retaggio, che fa da propellente (e da legittimazione culturale e ‘morale’) all’aggressività fisica. Nel web, per tornare da dove eravamo partiti, la falsificazione e la mistificazione possono svolgere funzioni politiche, a volte manifeste, in altri casi latenti. Entrambe assumono una ragione a sé quando diventano il veicolo attraverso il quale dare corpo all’impotenza attraverso la costruzione di un mondo parallelo, quello della menzogna credibile.
Lo scopo principale, nel qual caso, sta nel riprodurre all’infinito il medesimo dispositivo dal quale nascono, quello del risarcimento da frustrazione. Il livore alimenta se stesso, trova in sé le ragioni della sua persistenza. Non si tratta di una mera prospettiva psicologica. In realtà, ancora una volta viene da constatare che quando la politica si approssima al vuoto, questa assenza viene riempita da un qualcosa. Non è un caso, allora, se il populismo come fenomeno diffuso, non ascrivibile ad un solo schieramento ma in quanto espressione di una tendenza diffusa, raccolga e sintetizzi questo stato di cose. C’è un grande futuro nelle bufale e sta nei bisonti della menzogna di potere, che stanno intasando e ammorbando non solo il nostro presente ma anche, e soprattutto, il diritto al futuro. Un futuro non di fiabe o di fantasmi ma di speranze e progetti.

Claudio Vercelli

(10 gennaio 2016)