Le tracce ebraiche del cantante
David Bowie (1947 – 2016)

David-Bowie-40-anni-di-Ziggy-Stardust-l-alieno-sessualmente-ambiguo_h_partb “I’ve nothing much to offer, there’s nothing much to take, I’m an absolute beginner“. Cantava così David Bowie nel 1984, e parlava d’amore perché per quanto riguarda la sua carriera in realtà era tutt’altro che all’inizio del suo successo. La rockstar che ha saputo stupire una generazione dietro l’altra con i suoi esperimenti musicali e non solo, guadagnandosi il soprannome di camaleonte pop, è scomparso dopo aver lottato contro il cancro per un anno e mezzo all’età di 69 anni, compiuti l’8 gennaio, data di pubblicazione del suo ultimo album Blackstar. Bowie è rimasto sulla scena dagli anni Sessanta a oggi senza mai rimanere uguale a se stesso, passando da giovane e riccioluta promessa della scena rock a fattezze quasi non umane con Ziggy Stardust che ha decretato la sua fama mondiale nel 1973, dall’aspetto piratesco che ben si addiceva a Rebel Rebel nel 1974, al look biondo e ordinato degli anni Ottanta, a quello emaciato degli ultimi anni. E non meno mutevole e composita è stata la sua musica, che contiene rock, cabaret, jazz, quello che lui chiamava “plastic soul”, e allo stesso tempo non sono mancate le note pop come in Let’s Dance, che ha toccato i vertici di tutte le classifiche nel 1983. E in tutte queste eclettiche metamorfosi non potevano mancare anche tracce di ebraismo.
Sarebbe troppo facile e non particolarmente appassionante concentrarsi sulla storia di sua madre Peggy Burns, irlandese su cui girano molte voci a proposito di sue origini ebraiche. Quello che è certo è che ebbe una storia con un ebreo, Jack Isaac Rosenberg, da cui nacque il fratello maggiore di David, Terry. Il vero cognome di Bowie era invece Jones, e suo padre crebbe anche Terry come se fosse suo figlio dopo che Rosenberg abbandonò lui e Peggy.
Più interessante andare alla ricerca di riferimenti ebraici nelle canzoni di Bowie, passando in rassegna decenni di musica. C’è ad esempio la Song for Bob Dylan che fa parte dell’album del 1971 intitolato Hunky Dory. Bowie non faceva mistero del fatto che Dylan fosse una delle sue più grandi fonti di ispirazione, e il brano è un vero e proprio tributo a quello che fu il suo primo mentore e modello. “Oh, hear this Robert Zimmerman, I wrote a song for you about a strange young man called Dylan, with a voice like sand and glue”, cantava con voce sottile. E anche con l’evolversi della sua musica negli anni successivi, non si perse mai quella connessione speciale che lo legava a Bob, e così ancora nel 2013 in (You Will) Set The World On Fire cantava “Van Ronk says to Bobby she’s the next real thing”, riferendosi al musicista folk-blues Dave Van Ronk che a sua volta fu il mentore di Dylan. E per rimanere sui riferimenti musicali non si possono dimenticare Lou Reed, di cui tra le altre cose Bowie produsse il celebre album da solista Transformer uscito nel 1972, e la collaborazione con i Velvet Underground.
Verso la fine degli anni Ottanta a cavallo con i primi anni Novanta, molti ricorderanno che Bowie si reinventò come membro della band Tin Machine, di cui tra l’altro facevano parte anche il chitarrista Reeves Gabrels e e i fratelli Tony e Hunt Sales, rispettivamente batterista e bassista, figli del comico ebreo Soupy Sales, con i quali David aveva collaborato negli anni settanta per l’album di Iggy Pop Lust for Life. Ebbene, nel 1992 il gruppo pubblicò un album live che chiamò con un titolo senza alcun dubbio ebraico, Tin Machine Live: Oy Vey, Baby, che si dice strizzasse l’occhio al titolo tedesco dell’album degli U2 Achtung Baby.
In ogni caso bisogna ascoltare con attenzione anche i testi delle canzoni in cui meno ce lo si aspetta per trovarvi parole ebraiche. In Station To Station Bowie ad esempio canta: “Here are we, one magical movement from Kether to Malkuth” mettendo un po’ di immancabile misticismo ebraico nelle sue opere già così votate al mistero. Le parole fanno riferimento a quelle che secondo la Cabbalah sarebbero le emanazioni divine dell’infinito, cioè la corona e la regalità.
E a proposito di scrutare i testi sperando di trovarvi significati nascosti, nell’ultimo singolo Blackstar in molti hanno visto il suo testamento musicale, con un brano lungo dieci minuti denso di suoni cupi accompagnato da un video dalle atmosfere crepuscolari. Tutto l’omonimo album è stato definito complesso, difficile, in parte per le molte ardite sperimentazioni e in parte per le parole oscure e i messaggi non chiari. Ma oggi lo si comprende molto meglio rispetto a una settimana fa, perché risalta la chiara consapevolezza dell’artista verso la fine dei suoi giorni, che si può riscontrare in riferimenti alla malattia che ora appaiono evidenti e in una scena di un video che lo ritrae in un ospedale.
Tante le strofe e le parole con cui è possibile celebrare la lunga carriera di Bowie. Tra queste, il messaggio dal suono un po’ profetico contenuto in un verso di Starman, celebre successo del 1972: “There’s a starman waiting in the sky, he’s told us not to blow it cause he knows it’s all worthwhile, he told me: let the children lose it, let the children use it, let all the children boogie”.

Francesca Matalon twitter @fmatalonmoked

(11 gennaio 2015)