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Il senso delle parole

jesurumD’oltralpe continuano ad arrivare notizie tristi e tragiche. E insieme alle notizie tristi e tragiche non smettono di arrivare parole e comportamenti che devono renderci orgogliosi – oltre che farci da sprone e da esempio. Penso al discorso del gran rabbino di Francia Haïm Korsia pronunciato dopo le commemorazioni delle vittime dell’Hypercacher di Porte de Vincennes e della redazione di Charlie Hebdo.
Quella citazione di Albert Camus a proposito di come i media a volte trattano gli autori di atti di violenza antisemita e/o terrorismo definendoli squilibrati (Chiamare le cose con il nome sbagliato significa aggiungere del male al mondo. Le parole hanno un senso, è nostro dovere usarle con saggezza). Quell’affermazione per cui oggi più che mai solidarietà e fratellanza devono essere al centro del nostro impegno repubblicano. Quel ribadire quanto le religioni siano creatrici di legami con l’Altro prima ancora che con Dio.
Ma non c’è soltanto il rav Haïm Korsia. C’è la quotidianità di un ebraismo anche istituzionale che resta vivo e coraggioso perfino nei momenti di estrema tensione e preoccupazione. Me ne rendo sempre più conto scorrendo la newsletter che con regolarità arriva dal Musée d’art et d’histoire du Judaïsme di Parigi. Per dire: a margine della mostra “Moïse Figures d’un prophète” (che rimarrà aperta fino al 21 febbraio) è stata organizzata la tavola rotonda “Gospel e Terra promessa: Mosè nell’immaginario americano. Ragionando su Abraham Heschel e Martin Luther King”. A discuterne saranno Susannah Heschel, figlia di Abraham Heschel e il rabbino Stephen Berkowitz. E parlare oggi, in Francia, dove oltre metà delle aggressioni razziste sono a sfondo antisemita, di lotta a tutte le discriminazioni non è certo cosa da poco.

Stefano Jesurum, giornalista

(14 gennaio 2016)