Lontani dalla vendetta
È una convinzione universalmente diffusa, anche tra persone non particolarmente maldisposte nei confronti degli ebrei, che la vendetta sia un valore tipicamente ebraico. A mio parere non c’è nulla di più falso, ed è sconcertante verificare come questa idea falsa abbia potuto resistere per secoli; o, per lo meno, sarebbe sconcertante se non fossimo così abituati alle menzogne e ai pregiudizi su di noi da non farci troppo caso. La vendetta è un concetto così lontano dalla nostra mentalità che onestamente non ricordo di aver mai sentito una lezione o partecipato a una discussione nell’ambito del mondo ebraico in cui la parola “vendetta” sia mai stata menzionata, così come confesso di non sapere come si dica “vendetta” in ebraico. In ambito ebraico si parla soprattutto di autodifesa, di sicurezza (esigenze che vengono quasi sempre fraintese), oppure di giustizia, o al limite di punizione dei malvagi, che sono concetti completamente diversi dalla vendetta: giustizia significa riparazione, compensazione per la vittima nella misura in cui ciò è possibile e ristabilimento di un equilibrio che è stato spezzato; punizione significa educazione dell’intera società e rieducazione del malvagio: ne è un esempio evidente la narrazione dell’uscita dall’Egitto, con il midrash che arriva a descrivere il pentimento dello stesso Faraone immerso nel Mar Rosso. Viceversa la vendetta è gratuita, fine a se stessa, non ripara ma crea ulteriori lacerazioni. La troviamo nella furia di Achille contro Ettore, nella strage dei proci compiuta da Ulisse, nei film western, nei romanzi di Salgari, e in parte anche nell’inferno dantesco, con la sua logica stringente del contrappasso contro dannati incapaci di pentimento; la troviamo, insomma, in molti contesti non ebraici, e anche in personaggi come Shylock, ebrei nati nella testa di non ebrei e che in realtà di ebraico hanno ben poco. A guardare gli ebrei in carne ed ossa, invece, si vede tutt’altro. Lo rende in modo molto efficace Primo Levi quando nel Sistema periodico (Vanadio) racconta del suo desiderio di incontrare “uno di quelli di laggiù, che avevano disposto di noi, che non ci avevano guardati negli occhi, come se noi non avessimo avuto occhi. Non per fare vendetta: non sono un Conte di Montecristo. Solo per ristabilire le misure e per dire ‘Dunque?’”.
Casomai ci sarebbe da chiedersi come abbiano fatto i nostri nonni dopo la Shoah a continuare a vivere in Italia, in Europa, nella stessa Germania, fianco a fianco nella vita di tutti i giorni con persone che erano state complici o indifferenti, senza troppo astio e senza negare il proprio contributo attivo al benessere della società. A volte mi domando: non sarà per caso questa singolare incapacità di coltivare rancori a suscitare così tanto rancore?
Anna Segre, insegnante
(15 gennaio 2015)