Liste d’infamia
Qual è il senso del ripetersi della pubblicazione in rete di liste, a volte compilate anche con una discreta bizzarria di merito, di nomi di ‘ebrei’, ‘giudei’ e di ‘sionisti’, quand’anche una parte dei menzionati non appartenga all’uno o all’altro gruppo?
Perché alcuni personaggi, perlopiù schierati e allineati – quanto meno in origine – nell’orizzonte della destra radicale (ma non solo) ed oggi variamente devoti alla causa a favore dei palestinesi, e non solo (con significative ricadute nel campo del radicalismo islamista), si adoperano in questa attività? Non di meno, ed è un pensiero che ci permettiamo di avanzare, le liste della vergogna non potrebbero incontrarsi in un qualche futuro con quelle del boicottaggio dei prodotti israeliani, come anche dei rapporti con le istituzioni accademiche, sulla falsariga di quanto già avviene in altre parti dell’Europa? Gli estensori delle seconde si dichiarano da sempre estranei a qualsiasi forma di antisemitismo. Continueranno a farlo, alcuni anche strenuamente.
Ma la questione va al di là della loro stessa volontà, quando quest’ultima sia comunque rivolta nel senso della ‘genuinità’ delle intenzioni (boicotto per appoggiare una causa, quella degli oppressi, non per colpire delle persone), poiché il clima di diffamazione diffuso dalle liste di proscrizione si accompagna ad una neanche troppo sottile campagna di ‘identificazione’ e ‘separazione’ che si riflette nella pratica del ‘boicottaggio’.
Legittima politicamente ma che in questo caso riecheggia, non importa quanto involontariamente, fantasmi del passato. Al grande pubblico si dice: lo facciamo per il vostro e l’altrui bene, poiché certe cose, determinate situazioni così come le persone che le producono e le commerciano, sono gli agenti di un’usurpazione che deve cessare.
Per il programma BDS è una questione che rimanda ad una terra e ad un popolo. Per gli antisemiti, che cavalcano la vicenda palestinese, al mondo intero. L’obiettivo del boicottaggio è solo in parte economico (o civile), rischiando semmai di reintrodurre aspetti di implicita velenosità che anche gli stessi boicottatori non riuscirebbero a gestire nei loro effetti, una volta che questi risentimenti si fossero diffusi, divenendo quindi moneta corrente, capace di circolare con forza propria, a tratti ‘virale’.
Il pensiero corre soprattutto alla indisponibilità rispetto alle università israeliane, variamente indicate come corresponsabili o conniventi con la politica governativa. Facciamo allora uno sforzo ulteriore di analisi rispetto a questi ultimi aspetti, dividendo comunque il fenomeno del boicottaggio da quello della proscrizione.
Qual è la vera cifra delle liste nominative (non stiamo quindi parlando del BDS, che rimane questione a sé stante)? Cosa sono e cosa implicano? Il primo elemento è dato dalla loro intrinseca ambiguità, nella forma e nei contenuti. Chiariamoci sul senso del termine, poiché in questo caso implica un duplice fattore di riferimento.
Da un lato, su un piano funzionale, è rivolto alla magistratura. Si ha ambiguità quando, nella percezione condivisa, non si crea da subito un giudizio comune, consensuale, alimentando semmai uno spazio di indeterminazione. In altre parole: quelle liste, come vanno intese, a stretto giro di giudizio? Sono lecite, ancorché esplicitamente sgradevoli, oppure configurano un reato se non, quanto meno in prospettiva, la sua istigazione?
In una società democratica, elencare pubblicamente un nutrito numero di individui, dicendo (o lasciando intendere) che “non piacciono” all’estensore poiché appartenenti ad un gruppo (politico, culturale, ‘etnico’, religioso o cos’altro), cosa può concretamente implicare, al di là del rifiuto e del ludibrio morale in sé del gesto da parte di chi ne coglie da subito l’intrinseca pericolosità? Se tutto ciò è sanzionabile giuridicamente, e quindi penalmente, quale sarà il ritorno per le persone lese ma anche nella pubblica opinione, oltre all’azione censoria in quanto tale e alle eventuali pene, previa condanna, per i rei? È bene notare che su questi punti la magistratura dovrà pronunciarsi.
Quindi, la questione è ancora aperta sul piano del riflesso giuridico e giurisprudenziale, che è cosa diversa, o comunque non sempre immediatamente coincidente, con la valutazione di merito morale, civile e politico.
Secondo aspetto: la pubblicazione e la divulgazione di una o più liste di nomi è frequentemente recepita in maniera differente da chi la legge senza esserne chiamato in causa (o senza immedesimarsi in quanti invece lo sono), e chi invece si trova ad esservi consegnato suo malgrado. Nel primo caso, molti non avranno alcunché da obiettare, pensando, o fingendo di credere, che non sussista nulla di illecito nel qualificare la indesiderabilità, rispetto al novero delle proprie relazioni personali, di uno o più individui in ragione di una qualche appartenenza.
Essere ebrei, sionisti, filo-sionisti o quant’altro, da un punto di vista puramente formale, così come anche il dichiararsi tali o l’essere ritenuti tali, non costituisce di per sé un indice di pregiudizio (anche se spesso lo nasconde nell’altrui incoscienza). Per lo Stato democratico, costituzionale e repubblicano non è indice di nulla che non sia quanto è già legalmente implicato, ossia richiamato e normato, attraverso il sistema dell’Intesa e delle norme giuridiche che vi si ricollegano: non costituisce quindi elemento preferenziale né, tanto meno, differenziale. Ma se sul piano astratto e formalistico le cose stanno in questi termini, completamente diverso è il discorso per quanti si trovano elencati, quindi ascritti ed inchiodati, ad un qualche sgradevolissimo elenco redatto da un qualche privato. Poiché il rimando, molto concreto, è alle liste di proscrizione, antesignane di persecuzioni se non di un peggio già visto nel passato.
Come al repertorio dei nomi aggiunti ai volumetti antisemiti in Italia negli anni del regime fascista o al censimento compiuto dalla mussoliniana Direzione generale per la demografia e la razza nell’estate del 1938.
L’elenco, in questo caso, non serve tanto a coloro che lo redigono ma a quanti lo leggono, individuandovi e riconoscendovi il proprio nome. Deve comunicare apprensione e sollecitare angoscia. Si tratta di fare capire che “tu sei comunque nel mio bersaglio”, costituisci quindi un individuo-target e non più solo una persona tra le tante altre. Non sei più “anonimo” né titolare di una tua privatezza, avendo io – tuo censore – smascherato la tua ‘appartenenza’ (e la sua presunta pericolosità). Che da ciò derivi qualcosa di materiale, presumibilmente una violenza fisica, attraverso il passaggio alle vie di fatto, oppure il nulla, per certi aspetti appartiene ad altro ordine di considerazioni. Molto infatti dipende dal clima che si instaura nell’opinione pubblica. Poiché il vero obiettivo è comunque l’inquietare, condizione che di per se stessa è già una peculiare forma di violenza, ancorché psicologica, raggiunta la quale la proscrizione è concretamente in atto, operando il meccanismo della separazione dei soggetti additati nella lista, raccolti per una loro presunta ‘specificità’, comunque negativa, dal resto della popolazione. Il vero obiettivo del ripetersi della pubblicazione di elenchi di tal genere nella rete è rendere più plausibile quello che potrebbe diventare il passo successivo, la stigmatizzazione sociale. A questo i compilatori si dedicano con fervore. Se ciò dovesse accadere sarebbe per loro una grande vittoria. Come si debba rispondere a questa deriva, al di là degli strumenti sanzionatori di natura penale, è un tema scottante, avendo a che fare non solo con il destino delle minoranze ma anche con quello della coesione sociale tra la maggioranza dei cittadini.
Claudio Vercelli
(17 gennaio 2016)