Lavorare insieme per battere i fanatismi
Un caldo abbraccio che ripete quello che assurse trent’anni fa a simbolo della visita di Giovanni Paolo II in Sinagoga e dell’accoglienza fattagli da rav Toaff e quello che fu al centro della seconda visita, quella di papa Benedetto, sei anni fa esatti. Un atto che si ripete per tre volte diventa per il diritto rabbinico una consuetudine, “chazaqà”, ricorda rav Di Segni. Una visita divenuta una consuetudine, ma senza l’ovvietà dei rituali usati, che vuole essere soprattutto, sia per la Comunità ebraica che lo accoglie che per l’illustre visitatore, un gesto di amicizia, un simbolo forte del calore del rapporto tra cristiani ed ebrei, della loro fratellanza, della crescita avvenuta nel dialogo in questi anni. La forza e il calore che devono aver provato, nel lontano 1959, quando ancora non c’erano stati il Concilio e i suoi cambiamenti, gli ebrei romani che all’uscita dalla Sinagoga di Sabato videro il corteo delle macchine di Giovanni XXIII arrestarsi inaspettatamente sul Lungotevere e il Papa impartir loro la sua benedizione. Gesti simbolici, certo, ma spesso sono i simboli a smuovere le montagne.
Il contesto generale di oggi è tuttavia diverso anche da quello della più recente visita di papa Benedetto: siamo in una delle crisi politiche più gravi dell’Europa a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, la crisi economica non è finita e minaccia di acuirsi, il fondamentalismo islamico minaccia tutti, compresa tanta parte del mondo musulmano. Che in questo contesto il richiamo alla fede sia, nel rispetto reciproco delle differenze, un antidoto alla violenza, è stato qui ribadito con forza da tutti gli interlocutori, dalla presidente Dureghello al presidente Gattegna a rav Di Segni e al Pontefice nel suo discorso finale. Così come è stato sottolineato come il richiamo al rispetto delle differenze, al riconoscimento reciproco delle diversità, sia non solo giusto ma anche essenziale per smorzare l’odio fanatico di chi usa il nome di Dio per uccidere. Ed è questo il messaggio più forte che il riunirsi insieme, alla presenza di papa Francesco, di ebrei e cristiani può mandare, nel momento in cui i cristiani sono oggetto delle persecuzioni più sanguinose e l’antisemitismo riemerge sempre più visibile sia nei proclami del Daesh sia nella quotidianità della vita degli ebrei in Diaspora come in Israele. Un’alleanza, insomma, tra le tre religioni monoteiste, e quindi estesa naturalmente, come ha detto Ruth Dureghello, ai “tanti musulmani che condividono con noi la responsabilità di migliorare il mondo”, in nome del reciproco rispetto e della tolleranza. Un richiamo al fatto che le religioni possono e debbono essere motori di pace e non di guerra. Questo il primo messaggio forte che ci è venuto dalla giornata del 17 gennaio.
Un altro tema, più sommesso rispetto a questi grandi temi che toccano il destino del mondo ma altrettanto importante, riguarda i rapporti tra ebrei e cristiani. Al 17 gennaio si è arrivati con grandi progressi nel dialogo, progressi sanciti da molte voci autorevoli nel corso delle celebrazioni del cinquantenario della Nostra Aetate e in particolare da un documento emanato il 10 dicembre 2015 dalla Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, “Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili”, che, pur riallacciandosi a altri documenti precedenti e riprendendone le linee principali, rappresenta in questa formulazione una rottura senza precedenti nei rapporti tra cattolici ed ebrei, la seconda in successione dopo la Nostra Aetate, alle cui suggestioni teologiche questo documento si appoggia, sviluppandole e approfondendole e da cui trae il punto di partenza per le sue affermazioni tanto innovative. Ed è dopo questo riconoscimento che il papa si è presentato oggi in Sinagoga, ed è a questo documento che il suo discorso si è richiamato. Un’apertura teologica, un invito forte a tutti coloro che sono impegnati nel dialogo ad indagare infine anche la sua dimensione teologica. Un discorso, questo teologico, rinviato invece esplicitamente dal mondo ebraico in nome dell’invito a pratiche, azioni, progetti comuni, come Rav Di Segni ha tenuto a sottolineare. Rinviato, forse, non dismesso. Non credo che sia una trasformazione di poco conto il fatto che la Chiesa abbia rinunciato del tutto alla tradizione secolare di missione agli ebrei come non necessaria nel contesto della salvezza e abbia detto parole chiare ed indiscutibili sulla vexata quaestio della teologia della sostituzione, secondo cui l’elezione divina degli ebrei sarebbe stata sostituita da quella dei cristiani. E non credo neanche che ci siano esitazioni da parte ebraica a riconoscere come, dopo tanti inviti a pronunciarsi senza esitazioni ed ambiguità su questi punti, questo pronunciamento sia infine arrivato. La visita di oggi, ha detto rav Di Segni, significa che la Chiesa non intende tornare indietro sul percorso di riconciliazione. Da parte ebraica, tuttavia, la risposta non è chiara e molte riserve emergono attraverso la cautela delle parole. Sono riserve dovute soltanto al fatto che il discorso teologico appare incomprensibile ai più? O non ci sono invece, nei riconoscimenti della novità del passo compiuto dalla Chiesa, anche timori e remore? Timori che, una volta che la Chiesa ha rinunciato alla conversione, il riavvicinamento tra ebrei e cristiani porti all’annacquamento delle differenze dottrinali. In un articolo pubblicato pochi giorni fa sull’Osservatore Romano, il direttore di Pagine Ebraiche Guido Vitale ha ricordato una sua intervista nel lontano 1986 a rav Toaff, in occasione della visita in Sinagoga di Giovanni Paolo II. In quell’occasione Toaff aveva parlato proprio di questi timori: “Una rivoluzione radicale, una rinuncia alla tentazione di emarginare il popolo ebraico, un gesto che farà nascere rapporti nuovi fra due fedi che hanno le stesse, comuni radici storiche. Nasce un nuovo rapporto, su un piede di parità e di collaborazione. E se alcuni ebrei possono temere forse il pericolo di una certa attività missionaria da parte della Chiesa, diciamo si tratta di un rischio che, se mai esistesse, crediamo di essere in grado di poter scongiurare”. È con questa fiducia in se stessi e nella forza della tradizione ebraica che gli ebrei hanno aperto in Sinagoga le braccia a papa Francesco. Richiamandosi, come ha detto il rabbino Di Segni, alla “forza dello spirito”.
Lungi dall’essere una ripetizione di simboli già visti, l’incontro ha rappresentato una spinta rinnovata nella direzione della promessa verso il mondo, la promessa di lottare a favore di una realizzazione piena dell’umanità di tutti gli esseri. Un incontro di pace. Il punto di incontro tra due universalismi, l’universalismo degli ebrei e quello dei cristiani, tanto più necessario in un momento in cui le religioni devono attingere in se stesse e nella loro riconciliazione la forza di resistere al fanatismo e in cui cristiani, ebrei, uomini e donne di tutte le religioni e non credenti di buona volontà si uniscono sempre più spesso per collaborare a costruire un mondo migliore.
Anna Foa, storica
da Pagine Ebraiche, febbraio 2016
(18 gennaio 2016)