Verso Tu Bishvat – Quell’antico dovere di tutelare l’ambiente
“Se non sono per me, chi è per me?” è l’inizio di una massima di Hillel, così come compare nel Pirkè Avot. È un insegnamento assai noto, spesso citato in diversi contesti di studio e di riflessione. Sembra un appello all’autonomia, all’individualità: solamente noi possiamo andare completamente a fondo di noi stessi. Il percorso di costruzione personale dell’individuo deve iniziare con un movimento centripeto, una sorta di contrazione/concentrazione, un passo – direbbe la psicologia analitica – verso l’individuazione, verso il vero sé. Se non ci costruiamo come identità autonoma, non siamo; ed in questa prima fase del cammino siamo sostanzialmente soli: non possiamo appoggiarci ad altri. Il percorso però procede, suggerisce il grande maestro: “E se io sono esclusivamente per me stesso, cosa sono io?”. Eccedere nella concentrazione sul sé ci congela in una condizione non più personale, ma reificata. L’identificazione è alla base del nostro essere: se tutto lì si conclude, però, restiamo cose. Hillel ci apre a un’etica della responsabilità che ci vincola agli altri; agli altri esseri umani, in prima istanza. Ma anche agli altri esseri viventi e al mondo che ci circonda, all’ambiente in cui siamo inseriti, in cui e di cui viviamo. E quest’attenzione centrifuga, aperta agli altri e al fuori di noi, fondante e necessaria, è compito non procrastinabile e urgente: “se non ora quando” conclude Hillel. Occuparsi degli altri e del mondo – occuparsi del mondo che è anche degli altri, vicini e lontani nel tempo e nello spazio – non è una responsabilità rinviabile. Una delle possibili declinazioni dell’ebraismo, diffusa sia a livello di auto che di etereo percezione, propone una immagine che oscilla tra il libresco/intellettuale e il normativo/rituale. Da questo panorama, in genere, è escluso lo sguardo al mondo circostante e all’ambiente: stanze chiuse e uomini chini a studiare, montagne di regole da osservare. Eppure anche da qui si potrebbe aprire un varco verso la realtà; rabbi Zaddoq haCohen di Lublino propone un’immagine suggestiva in proposito: “Dio ha scritto un libro – il mondo – e il suo commento: la Torah”. In questa prospettiva studiare la Torah è concentrarsi sull’esegesi del mondo; osservare i precetti è garanzia della sua corretta sussistenza: con lo studio e l’osservanza ci si relaziona al testo sacro, al mondo ed a Dio. Tanti potrebbero essere i riferimenti al tema ambientale, certamente echeggiato in Tu Bishevat – il capodanno degli alberi – che chiede il rispetto di un tempo della natura, distinto e diverso da quello umano: lo Shabbat e l’anno sabbatico ne sono due esempi. Ma è d’altra parte possibile partire semplicemente da alcune minime osservazioni sull’inizio della storia biblica, che è poi in fondo l’inizio della storia umana: è lì che si può reperire un modello originario, un progetto a cui fare riferimento. Adamo, secondo la tradizione midrashica, è fatto di polvere tratta da ogni angolo della terra: il Netziv, nel suo commento alla Torah, dice che quest’origine è alla base della adattabilità umana a ogni condizione ambientale, ed al tempo stesso fonda la molteplicità caratteriale dell’uomo. Siamo esseri compositi tanto dal punto di vista materiale che da quello spirituale/psicologico, e per questo ogni ambiente è potenzialmente il nostro ambiente, da preservare e migliorare. Perché se è vero che Adamo riceve l’ordine di conquistare la terra, è altrettanto vero che viene incaricato, posto nell’Eden, di lavorarlo e custodirlo: la conquista, ben lungi da essere invito alla distruzione, è il completamento, frutto di una collaborazione, del progetto creativo divino. E che di questo progetto faccia parte integrante una corretta relazione con l’ambiente, o meglio ancora la sostanziale dipendenza dell’uomo da quest’ultimo, è suggerito dal commento di Shimshon Refael Hirsch all’atto stesso della creazione dell’uomo. Con “facciamo l’uomo” – espressione notoriamente assai problematica perché plurale – Dio, di fronte alla potenziale distruttività dell’essere che vuole creare, chiede consenso al resto del creato verso il quale, così, l’uomo non può che avere un debito di responsabilità morale. E in fondo, a ben vedere, è proprio da una trasgressione a questa responsabilità che ha origine l’esilio dell’uomo dall’Eden: Adamo strappa un frutto da un albero, distrugge una parte del creato che gli era interdetta, rovina una pianta, non accetta un limite al suo rapporto con la natura stessa. E ne paga la conseguenza: “Maledetta la terra a causa tua: per tutti i giorni della tua vita mangerai il suo prodotto con affanno ed essa produrrà per te pruni e sterpi…”. E’ forse solamente con il tiqqun olam, l’aggiustamento dei guasti del mondo – materiali quanto spirituali – che questa maledizione può essere superata.
Benedetto Carucci Viterbi, rabbino
Pagine Ebraiche, febbraio 2010
(20 gennaio 2016)