Educazione fascista

Sara Valentina Di PalmaIl 26 gennaio è stata inaugurata presso la Comunità Ebraica di Firenze la mostra A lezione di razzismo. Scuola e libri durante la persecuzione antisemita, curata da Pamela Giorgi e Giovanna Lamborni e aperta sino al 4 aprile. Lo stesso giorno sono stati presentati gli atti del convegno dedicato alla giornata di studi sull’omonimo argomento svoltosi a Firenze due anni fa per il Giorno della Memoria: Matite razziste. L’antisemitismo nell’illustrazione del periodo fascista, a cura di Giovanna Lambroni e Dora Liscia Bemporad, pubblicato come primo quaderno della Fondazione Ambron Castiglioni da Edifir nel 2015.
Dai testi esposti, provenienti soprattutto dall’interessante Archivio storico dell’Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa (Indire), emergono sostanzialmente due cose.
La prima, che i bambini ebrei fino a un certo punto leggevano e studiavano sugli stessi libri dei bambini non ebrei, venendo ugualmente formati ad essere bravi balilla e solerti piccole italiane, pronti a consegnare i propri giocattoli di ferro per la patria (Vieni! Doniamo anche noi questi trastulli; l’Italia può contar sui suoi fanciulli!, recita la copertina di un quaderno scolastico) e parimenti entusiasti lettori di testi fascistissimi come Alza bandiera! di Giuseppe Fanciulli (pubblicato nel 1934 dall’editore Bemporad, esponente di rilievo della Comunità ebraica fiorentina e fascista convinto poi estromesso da Giovanni Gentile; dopo l’emanazione delle leggi razziste la sua casa editrice deve cambiare anche il nome, divenendo Marzocco). Oltre ai libri di narrativa, il Testo Unico per la scuola, i quaderni appunto, i periodici per bambini e ragazzi da Il Corriere dei Piccoli a Il Balilla e la sua versione femminile La piccola italiana, sono tutti volti a educare l’uomo nuovo italico, individuando nell’infanzia l’obiettivo privilegiato della propaganda razzista, nei confronti delle minoranze interne come quella slava come esterne quali i popoli coloniali e poi il nemico interno per eccellenza, gli ebrei. Ma dopo il 1938, in realtà, iconografia e testi per l’infanzia non avranno bisogno di veicolare il messaggio antisemita italiano: non sarà infatti più necessario, perché i bambini ebrei saranno espulsi e dimenticati.
La seconda cosa che emerge è proprio questa: nonostante i bambini ebrei siano espulsi da scuola e dalla società, e inseriti in speciali sezioni di scuola elementare ebraica (solo se presenti in numero pari o superiore a dieci, come anche in scuole private elementari e medie istituite a discrezione e carico delle singole comunità Israelitiche), e nonostante quindi siano formalmente ritenuti inferiori ed esclusi, i testi di scuola non cambiano ed i bambini ebrei continuano a essere educati nel mito della camicia nera, con una schizofrenia educativa non da poco.
Mi sovvengono due esempi illuminanti di entrambi i casi. Il primo è quello, riportato anche in mostra, dei fratelli Lionella e Leo Neppi Modona, arrivati a Firenze proprio nel 1938. Lionella lascia memoria in un quaderno, datato anno XX dell’era fascista (ovvero dal 28 ottobre 1941 al 27 ottobre 1942), della spasmodica attesa della rivista La piccola italiana cui era abbonata e che tanto le piaceva. Il fratellino Leo scrive invece nei suoi quaderni di esercizi (probabilmente spunto per il diario Barbari nel XX secolo. Cronaca familiare settembre 1938-febbraio 1944, edito da Aska nel 2010), con quale entusiasmo legga proprio Alza bandiera! ma anche i libri di Laura Cantoni Orvieto, amatissima scrittrice ebrea per l’infanzia poi censurata dall’editore Bemporad già nel 1929 con la richiesta di tagliare dal racconto Leo e Lia. Storia di due bimbi italiani e di una governante inglese (1909) il capitolo Il re è ebreo?.
Il secondo esempio è quello di Aldo Zargani, il quale ricorda la confusione creata dallo studio del libro di testo unico, o l’imbarazzo nel dover scrivere un elaborato sul bambino fascista ritratto sulla copertina del suo libro scolastico: “Non ricordo più il tema nei suoi dettagli, lo lessi una sola volta quando lo copiai in bella […], ma mi pare vagamente che tentasse di spiegare perché, come giudeo, non potevo essere balilla, non potevo agitare il fucile e neanche il libro e neppure ridere” (Per violino solo. La mia infanzia nell’Aldiqua 1938-1945, il Mulino, 1995, pp. 87-88).
E penso alla fine alle conseguenze di tutto questo nel dopoguerra per chi è sopravvissuto, in una bambina come Lia Levi che deve imparare a smettere di considerare se stessa prima di tutto “una bambina ebrea” per ritornare ad essere “una bambina e basta”, magari non spontaneamente ma su sollecitazione degli adulti come la madre, la quale le straccia una lettera in cui appunto la bimba si definisce come una bambina ebrea, e le impone di riscriverla e di iniziare a vedersi, semplicemente, come una bambina (Una bambina e basta, Edizioni e/o, 1999, pp. 120-121). Ma anche in chi continua a subire il pregiudizio di altri bambini cresciuti nel mito della razza italica superiore, come racconta Jordanit Ascoli in una intervista che mi ha concesso diversi anni fa (Se questo è un bambino. Infanzia e Shoah, Giuntina 2014, p. 177): “Ricordo con precisione di aver chiesto a questi bambini sconosciuti se potevo giocare con loro. E una bambina mi ha detto: ‘No, tu vai via perché sei ebrea. Tu con noi non puoi giocare perché sei ebrea’. […] La mamma di questa bambina l’ha chiamata e le ha parlato sottovoce. La bambina è tornata e mi ha detto: ‘No, mi ha detto la mia mamma che adesso puoi giocare con noi anche se sei ebrea’”.

Sara Valentina Di Palma

(4 febbraio 2016)