Madri d’Israele – Caitlin
La conobbi esattamente un anno fa, quando decisi di improvvisarmi soccorritore sulle ambulanze israeliane.
Lunghi capelli biondi, un paio di angelici occhi celesti, un sorriso imperdibile.
Caitlin era una delle coordinatrici del programma di volontariato di cui feci parte per due memorabili mesi.
Fatta eccezione per un paio di audaci rianimazioni e qualche bendaggio poco riuscito, la nostra conoscenza si limitò ad una formale amicizia su Facebook, una barriera virtuale assolutamente insopportabile. Tuttavia, il vago ricordo di un ebraico zoppicante, un accento stravagante e qualche racconto appena accennato durante un freddo Shabbat trascorso insieme, mi hanno portato a scriverle questa settimana. L’incontro che ne consegue viene conservato nella mia mente con un solo semplice titolo: Madre d’Israele.
“Fino all’età di dodici anni mi potevi trovare in una piccola Chiesa dispersa nel cuore della Nuova Zelanda, impegnata a pregare con fervore. I miei genitori erano sempre più infelici della realtà che stavano vivendo, devoti ad una religione che scuoteva sempre meno i loro animi. Cominciarono dunque un percorso che coinvolse tutta la famiglia, una sorta di ritorno alle origini, un viaggio di sola andata nello studio del Talmud. Ricordo ancora quando ci riunivamo intorno al tavolo e il mio papà ci conquistava con i racconti Biblici, letti ed interpretati con un entusiasmo mai visto prima, una scintilla capace di accendere i cuori di ognuno di noi. Così arrivammo presto ad abbracciare i punti cardine dell’ebraismo: lo Shabbat e la Kasherut.”
La svolta avvenne nel 2009, con un viaggio fuori copione.
“Non dimenticherò mai l’istante in cui misi piede in Israele. Mi sentii da subito a casa, mi sentii d’un tratto rinata. Trascorsi insieme alla mia famiglia l’anno più felice e spensierato della mia vita. Un’alchimia mai provata sino a quel momento ci fece immediatamente capire che avevamo intrapreso il giusto percorso. Studiavamo ebraico ed ebraismo, esploravamo la Terra dalle infinite meraviglie, godevamo di ogni respiro inalato in questa porzione di paradiso.”
Non ci volle molto prima che la nostra protagonista dovette risvegliarsi dal suo sogno ad occhi aperti. Come la carrozza di Cenerentola tornò ad essere una semplice zucca allo scoccare della mezzanotte, il visto che permetteva a Caitlin di riscoprire se stessa e ciò che più la rendeva felice scadette al termine dei dodici mesi, dei trecentosessantacinque giorni. Cominciò così un’ epopea degna di un romanzo di Mark Twein, un via e vai infinito sulla rotta Nuova Zelanda-Israele.
“Il programma di volontariato del Maghen David Adom fu una vera salvezza per me, nonché la combinazione perfetta di tutto ciò che più amavo. Sin da bambina, infatti, desideravo di potermi realizzare nel campo medico, il fatto di poter praticare la mia passione in Israele era quanto di meglio potesse accadermi.”
Caitlin comincia a seguire tutti i corsi che l’organizzazione delle ambulanze israeliane abbia da offrirle, tornando così nella sua nuova patria per brevi ed intensi periodi.
“Anche la mia storia ha un lieto fine”, mi rassicura dolcemente, probabilmente notando il mio sguardo preoccupato per le sorti della sua famiglia. “La lieta notizia arrivò quattro anni dopo il nostro primo arrivo in Israele. Un Rabbino contattò mio padre per comunicargli che eravamo stati accettati ad un programma di conversione all’ebraismo e che da quel momento potevamo dire addio alla Nuova Zelanda.”
Da perfetta Madre d’Israele quale è, Caitlin riprende immediatamente le sue attività da volontaria sulle ambulanze israeliane, diventando un apprezzato paramedico e una delle coordinatrici del programma che ha intrecciato le nostre vite. Non si tira mai indietro quando c’è bisogno di lei, come Clark Kent o Peter Parker, anche la nostra esile eroina sa trasformarsi all’occorrenza.
Mi racconta un aneddoto singolare, un episodio rimasto fortemente impresso in lei, un ricordo indelebile.
“Stavo misurando la pressione ad un’anziana signora, eravamo in ambulanza, diretti d’urgenza all’ospedale più vicino. Quando le alzai la manica del maglione, riconobbi immediatamente il numero tatuato sul braccio. La paziente mi strinse forte la mano e mi chiese se volevo ascoltare la sua storia. Erano i suoi ultimi attimi quelli, gli ultimi respiri, le ultime parole. Mi raccontò la sua storia come una nonna racconta una favola alla sua amata nipotina, guardandomi intensamente, stringendomi forte. Mi passò il testimone della memoria, proprio a me, che facevo parte di quel popolo dalla tradizione millenaria da soli pochi mesi.”
Tuttavia Caitlin si sente nata ebrea, descrive la conversione come un ritorno inevitabile, già segnato alla nascita dei suoi genitori. La storia del popolo ebraico è la sua storia, la Terra promessa è sua più che di chiunque altro.
“L’anno scorso mi sono sposata con un ragazzo meraviglioso di origine sudafricana”, mi racconta raggiante, come se stesse solo aspettando questo capitolo della sua storia. “Lo incontrai per la prima volta al matrimonio ebraico che i miei genitori dovettero ripetere dopo la conversione. Fu una sorta di colpo di fulmine, le nostre famiglie si conoscevano già bene in quanto entrambe coinvolte nello stesso percorso di conversione.”
D’un tratto il sorriso si fa più radioso che mai. “Abitiamo in un piccolo insediamento vicino a Hebron e… Aspettiamo un bambino, sono già all’ottavo mese!”, mi confessa in chiusura. La osservo sbigottito, cercando di capire dove si stia nascondendo il feto, convinto da sempre che all’ottavo mese il pancione debba avere le sembianze di un cocomero. “Mazal Tov di cuore”, è ciò che riesco a formulare esitante, impacciato proprio come quando mi ritrovavo a medicare un naso rotto sull’ambulanza.
David Zebuloni