Segnalibro – Israele e gli altri
I post-sionisti

Qual è il volto oggi del sionismo a distanza di quasi settant’anni dalla costituzione della solida democrazia israeliana? Qual è il rapporto di Israele con le sue componenti interne, in particolare con il mondo arabo (che costituisce il 20 per cento della popolazione nazionale)? Sono alcuni degli interrogativi a cui cerca di dare risposta la lucida analisi della giornalista Anna Momigliano nel suo ultimo libro Israele e gli altri: un dissidio irrisolto, recentemente pubblicato da LaZisa, con prefazione di Tobia Zevi. Di seguito un brano estratto dal lavoro di Momigliano.

anna_momigliano“È arrivato il momento di ammettere che Israele è una società malata”, ha detto il presidente israeliano Reuven Rivlin, qualche mese dopo l’assassinio di Mohammed Abu Khdeir. A differenza di altri politici e commentatori, Rivlin si è rifiutato di leggere quello e altri episodi di violenza tra arabi ed ebrei come opera di estremisti, pazzi o malati, poche mele marce che nulla hanno a che vedere col resto della società.
Certo, i tre giovani che hanno rapito e arso vivo quel ragazzino hanno agito come gruppo isolato, su iniziativa personale, e sebbene fossero ispirati da un’ideologia che gode di un discreto seguito nelle frange più radicali della destra israeliana, non ci sono prove che il loro crimine sia stato portato a termine con l’aiuto di gruppi kahanisti meglio organizzati. Il Kahanismo, del resto, rappresenta una corrente estremista tra gli estremisti. Sebbene alcuni nutrano il timore, non del tutto infondato, che questi estremisti stiano riuscendo ad infiltrarsi in alcuni settori della società civile da cui prima erano completamente banditi – per esempio il reporter del Jerusalem Post, rispettata testata conservatrice, Samuel Sokol ha postato su Internet una foto in cui posava con la bandiera kahanista – non è questo a preoccupare Rivlin. Sono piuttosto certi toni, un tempo inauditi fuori dagli ambienti ultra-nazionalisti ed ora improvvisamente diventati accettabili, se non proprio comuni, anche tra le persone “normali” a fare suonare un campanello. Sono le ragazzine, graziose e ben truccate, che si fanno autoscatti con scritte come “odiare gli arabi non è razzismo”. Sono i genitori che protestano se una scuola accetta studenti musulmani.
“Non mi domando se si sono dimenticati come comportarsi da ebrei”, ha detto Rivlin. “Piuttosto, la domanda è se hanno scordato come si comporta un essere umano decente”. Non è una distinzione da poco. Perché la distinzione tra valori ebraici e valori universali è una delle questioni alla base della delusione di chi, a un certo punto, ha cominciato a dubitare della sua appartenenza alla nazione israeliana. Non soltanto Sayed Kashua, lo scrittore arabo-israeliano che s’è convinto che Israele non era più casa sua, ma anche un crescente numero di giovani, ebrei e israeliani di nascita, che hanno iniziato a sentirsi a disagio nel loro stesso paese. Alcuni – poche migliaia, a dire il vero, si tratta ancora di un fenomeno esiguo nei numeri ma molto importante da un punto di vista culturale – hanno scelto di lasciare il paese per ragioni ideologiche. Altri hanno scelto di definirsi “post-sionisti”, a significare che l’ideologia che ha portato alla nascita della loro nazione non è più compatibile con i valori universali di giustizia e uguaglianza, o se non altro con la loro declinazione del nuovo millennio. Altri ancora hanno fatto ambedue le cose. Come per esempio Na’aman Hirschfeld, un giovane ricercatore di filosofia che si è trasferito a Berlino, dove studia e lavora per l’Humboldt Universität. La decisione di lasciare Tel Aviv per la capitale tedesca non è stata dettata unicamente dall’opportunità di lavoro presso un prestigioso ateneo, ha spiegato lo stesso Hirschfeld.
“Immigrare qui è stato un riconoscimento dell’impossibilità di vivere in Israele; dell’impossibilità di cambiare le cose; del fatto che non ho alcun ruolo in Israele se non essere una foglia di fico per coloro che dicono: guardate, è uno Stato libero e democratico dove anche chi odia il paese, i sinistroidi innamorati degli arabi, possono parlare senza finire in prigione”, ha scritto il ricercatore in un articolo su Haaretz che, comprensibilmente, ha alzato un bel polverone. Come per Kashua, anche per Hirschfeld il punto di non ritorno è stata l’estate del 2014, con i fatti di sangue a Gerusalemme e l’Operazione Margine Difensivo lanciata dall’esercito israeliano sulla Striscia di Gaza, in reazione al lancio di razzi palestinesi dal Sud del Paese, che però molti tra i media israeliani si sono rifiutati di chiamare “guerra”, nonostante gli oltre duemila morti: “Durante l’ultima nonguerra di Gaza l’estrema destra si è impossessata del dibattito pubblico. Quel momento è stato lo spartiacque: una linea è stata attraversata e la maggioranza degli israeliani ha scelto di conformarsi alla retorica e alle azioni violente dell’estrema destra.”
“L’atto stesso di partire incarna una scelta di diventare post-israeliano”, conclude Hirschfeld. “Non è più una deviazione dalla narrazione sionista, bensì una rottura con il Sionismo.” Secondo lui negli ultimi decenni la destra s’è “impadronita” della parola sionismo: “Oggi essere sionista, almeno nel dibattito pubblico israeliano, significa sostenere la politica degli insediamenti della destra sionista e accettare il loro linguaggio politico come una descrizione fedele della realtà. Qualcuno controbatterà che questo non è Sionismo, o non tutto ciò che il Sionismo rappresenta, ma mettersi a discutere sul Sionismo storico, piuttosto che del dibattito contemporaneo, significa attaccarsi a un passato perduto, e a tratti immaginario.”
Eppure, nonostante ci sia anche chi come Hirschfeld abbia deciso di chiudere una volta per tutte con il Sionismo, in Israele esiste ancora una discussione pubblica sull’ideologia che ha portato alla nascita dello Stato. Quando i primi pionieri ebrei sono giunti in Palestina nella seconda metà dell’Ottocento, unendosi alla comunità ebraica che già esisteva in quei luoghi (il cosiddetto “ha-Yishuv ha- Yashan”, l’antica comunità, in contrapposizione con “ha-Yishuv ha-Chadash”, ossia la comunità ebraica nata dalle prime ondate di immigrazione sionista), l’obiettivo era creare uno Stato ebraico e democratico: un paese dove gli ebrei, perseguitati o costretti all’assimilazione in Europa, potessero essere ebrei e dove tutti i cittadini potessero essere uomini liberi, indipendentemente dal credo o dall’etnia. Oggi, a quasi centocinquant’anni di distanza, Israele è uno Stato ebraico e democratico, dove tutti i cittadini godono di pari diritti, che essi appartengano alla maggioranza ebraica oppure alla minoranza araba che rappresenta il venti per cento della popolazione. Eppure è anche uno Stato che, di fatto, controlla le vite di milioni di persone, i palestinesi dei Territori occupati, senza che questi abbiano diritto di voto – diritto di cui, per altro, invece godono gli ebrei che vivono in Cisgiordania. È un paese in cui un numero crescente di cittadini arabi non si sentono più a casa – alcuni, tra i più benestanti e cosmopoliti, hanno scelto l’esilio volontario come ha fatto Kashua, molti di più hanno smesso di definirsi non più “arabi israeliani”, bensì “palestinesi del 1948”, a sottolineare la loro identità non israeliana e in solidarietà con i loro fratelli dei Territori occupati, definiti “palestinesi del 1967”. Israele è un paese in cui una parte della popolazione, certo minoritaria ma sempre meno marginalizzata, ritiene accettabile, se non proprio normale, che delle ragazzine se ne escano con delle frasi come “odiare gli arabi non è razzismo”.
Inutile negarlo: Israele è, come ha detto il presidente Rivlin, una società malata. Alcuni si sono convinti che la radice del problema sia l’idea stessa di Israele, o meglio il modo in cui è nata. Com’è possibile coniugare l’ideale di uno “Stato ebraico e democratico” con i valori universali di uguaglianza e democrazia? Certo, Israele ci ha provato, e per un po’ pareva persino esserci riuscito, ma alla fine il Sionismo s’è dimostrato per quello che era, ossia un’idea fallimentare in partenza: questo il ragionamento dei critici.

Anna Momigliano, Israele e gli altri: un dissidio irrisolto, LaZisa editore