Qui Torino – Il Decimo Comandamento
“Non desiderare ciò che appartiene ad altri”. È stato il decimo comandamento il tema della conferenza del rabbino capo di Torino Ariel Di Porto, in occasione della Giornata per la conoscenza dell’Ebraismo. L’incontro, organizzato dalla Comunità Ebraica della città assieme alla Comunità Diocesiana per l’Ecumenismo e il dialogo, la Comunità Evangelica per l’Ecumenismo e l’A.E.C., Amicizia Ebraico-Cristiana di Torino, si pone a conclusione di un intenso ciclo di studi sui Dieci Comandamenti. Ad aprire la serata, i saluti del presidente della Comunità torinese, Dario Disegni, che ha sottolineato l’importanza del dialogo e dello scambio di conoscenza tra le diverse comunità religiose. A seguire, l’intervento di Monsignor Cesare Nosiglia, arcivescovo di Torino, con l’invito a riflettere sulla volontà di possedere l’altro e come questo desiderio sia trattato nelle Sacre Scritture. “La Scrittura – ha spiegato – ci propone un’educazione al desiderio per crescere nel bene e non cadere nella possessione”. “La decima parola ci invita a educare il nostro desiderio, ci invita a saper desiderare il bene, ad avere grandi desideri, fino a quello di vivere per Dio”. “La decima parola – ha concluso – è caratterizzata dall’aver molti livelli di attuazione”. È poi Eugenia Ferrari, presidente della Commissione Evangelica per l’Ecumenismo, a prendere la parola per sottolineare l’importanza di questa giornata, un’occasione d’incontro che ogni hanno si rinnova, un’occasione di avvicinamento tra persone. “Siamo generati tutti dalla stessa radice, pensiero che deve tornarci alla mente quando ci incontriamo e ancor più quando non ci incontriamo”, conclude. Ultimo saluto del Presidente dell’A.E.C., Pastore Francesco Mosca, che ribadisce l’importanza dello studio della decima parola, sostenendo che non vada vista come una serie di proibizioni, ma piuttosto come “una traccia di vita e di azione”. È poi Rav Ariel di Porto a prendere la parola per spiegare ai presenti le proprie riflessioni sul tema. “L’ultima delle dieci parole, sebbene sia nota praticamente a tutti, merita una riflessione, perché all’interno di questo precetto troviamo numerose distinzioni, sconosciute ai più”. La distinzione più significativa riguarda l’utilizzo di forme verbali diverse per esprimere lo stesso concetto: infatti ci sono due versioni dei dieci comandamenti, nella versione nel libro di Shemot lo tachmod, in Devarim welò titawwè. Sembrano essere due desideri distinti. “Possiamo chiederci – ha spiegato il rav – se ci sia una differenza fra lo tachmod e lo titawwè. Secondo la Mekhiltà di R. Shim’on Bar Yochai, si tratta di due passaggi successivi, dove la taavàh, il mero desiderio, precede la chemdàh, che consiste nella progettualità per appropriarsi dei beni altrui”. Alla progettualità deve seguire l’azione o anche solo il pensiero è condannabile? “Rav Shimshon Refael Hirsch (Shemot 20,14) – ha proseguito il rav – scrive che con questo comandamento si conclude la Tavola che riguarda i rapporti fra individui, ed è il sigillo di H.: difatti qualsiasi legislatore avrebbe potuto istituire il divieto di omicidio, ma solamente H., che può scrutare i cuori degli uomini, può vietare persino dei pensieri. Gli uomini non sono in grado di sanzionare il pensiero che porta all’azione, ma solamente, una volta che quest’ultima si è verificata, possono condurre il colpevole in tribunale”. Un certo tipo di pensiero può costituire infatti una prevaricazione nei confronti del prossimo. La riflessione si sposta così sul binomio io – l’altro e quindi sulle relazioni con gli altri e con se stessi. “I dieci comandamenti – ha concluso Rav Di Porto – si aprono con il termine anokhì, Io, terminano con il termine lere’èkha – per il tuo prossimo. I dieci comandamenti si dispiegano nel rapporto tra me e l’altro. Questa è la grande sfida”.
Alice Fubini
(Foto di Renzo Bussio)
(8 febbraio 2016)