Il figlio di Saul
Il 20 gennaio sono stato ospite del Trieste Film Festival all’anteprima de Il figlio di Saul (nell’immagine, una scena del film) al cinema Ariston alla presenza di Géza Röhrig, attore principale del film (Saul Fia Teodora film – Ungheria 2014 – 107’).
Avevo lungamente sentito parlare di questo film ungherese, vincitore del Golden Globe, Premio della critica a Cannes e candidato all’Oscar come miglior film straniero. Dopo aver letto le critiche osannanti che lo collocavano addirittura come un lungometraggio di cambiamento epocale e di rottura con il vecchio concetto di narrazione del dramma della Shoah, la mia curiosità si era accesa ed avevo ovviamente anche molte aspettative.
Ero convinto che mi sarei trovato davanti un lavoro di protesta, un film nato nell’Ungheria di Fidesz, di Jobbik, in breve, nell’Ungheria di Viktor Orbán, ma teso a dimostrare che esiste una resistenza interna a questa deriva di estrema destra spesso tacciata di antisemitismo.
Fidesz, il partito del leader Orbán è un partito nazionalista che con le elezioni del 2010 ha ottenuto la maggioranza più solida al governo dopo la caduta del comunismo. La nuova costituzione del 2012 esalta il concetto di famiglia tradizionale e della religione cattolica. Nel marzo del 2013 Orbán premia tre “intellettuali” magiari notoriamente razzisti e antisemiti. Uno di questi, Ferenc Szanizsló nel 2011 dichiarò che i Rom sono come delle scimmie; un altro premiato, Kornel Bakay, nel 2011 incolpò gli ebrei di essere stati gli organizzatori della tratta degli schiavi dal medioevo fino all’abolizionismo; il terzo, Petras Janos è un cantante di un gruppo nazirock denominato “Karpatia”; gruppo che partecipa accompagnando musicalmente i raduni neonazisti paramilitari di Jobbik.
Il governo Orbán ha fatto riabilitare la figura dell’ammiraglio Miklòs Horthy, zelante collaboratore antisemita di Hitler e grande complice della soluzione finale.
Nonostante alcune dichiarazioni ufficiali di Orbán che parlando del periodo della Shoah ha dichiarato che è stata una “vergogna nazionale”, l’antisemitismo in Ungheria è ancora forte e si mescola ad un acceso nazionalismo rinfocolato dalla crisi economica e dalla dura critica all’Europa dell’euroscettico Orbán.
Tutta questa premessa per dire che mi aspettavo di vedere un film autonomo teso a dire al mondo che, nonostante la politica populista ungherese, esiste un’intellighenzia che riesce a produrre film anche scomodi al regime.
Saul Ausländer, orologiaio presumibilmente trentenne nato in un piccolo centro ebraico ungherese, internato nel campo di Birkenau fa parte di un Sonderkommando. Deve accompagnare i deportati nelle camere a gas, assicurarsi di chiudere bene le porte della stanza della morte, cercare oggetti preziosi tra i vestiti appesi e raccoglierli per il riciclo nel periodo in cui si odono ancora provenire le urla dalla camera a gas. Poi, una volta ritornato il silenzio, aprire, ammassare gli “Stücke”, i cadaveri, sul montacarichi che li avrebbe portati al crematorio e pulire la camera a gas dalle tracce umane lasciate dalle vittime.
(Scusate la durezza della descrizione ma esattamente questo è ciò che si vede durante la visione). Un ragazzo – un episodio effettivamente accaduto un paio di volte a Birkenau – per qualche motivo non muore nella camera a gas, viene quindi soffocato da un “medico” tedesco per poi procedere all’autopsia del cadavere finalizzata all’individuazione delle ragioni fisiologiche che avevano permesso al disgraziato di sopravvivere.
In quel ragazzo morto, Saul vuole vedere un figlio che probabilmente non ha avuto e decide di volerlo salvare in maniera rocambolesca dall’autopsia e dargli una degna sepoltura. Si mette quindi alla spasmodica e folle ricerca di un rabbino… ricerca tanto spasmodica che lo porta a disertare il suo kommando ed intrufolarsi in ogni kommando dove gli veniva segnalata la presenza di un probabile rabbino.
Sullo sfondo di questi suoi spostamenti alla ricerca della figura rabbinica, scoppia la ben nota rivolta dei Sonderkommando di Birkenau.
Da un lato il film rende perfettamente l’idea della disumanizzazione dell’individuo, nonché la malefica ingegnosa operosità del campo di sterminio con i suoi montacarichi per decine di cadaveri e i forni simili a enormi caldaie di treno a vapore con montagne di carbone e schiavi che gettano palate per alimentare le fiamme. Ci sono stati però parecchi momenti nei quali mi sono ritrovato dubbioso e scettico su certe scelte.
Saul è un ebreo trentenne, nato quindi attorno al primo decennio del ‘900 in un piccolo centro ungherese, appartiene al ceto medio-basso ma nel film non parla lo Yiddish, e tantomeno lo capisce. Parla solo ungherese. Mi risulta alquanto difficile immaginare un ebreo ungherese non della cosmopolita Pest, che non parli Yiddish. Lo stesso dicasi per la sua appartenenza identitario/religiosa: in quegli anni i ragazzini ebrei ricevevano in casa e al Cheder una rigida educazione ebraica; spesso con l’età adulta si allontanavano dalla fede ma i concetti e le conoscenze rimanevano. Saul di ebraismo sembra saperne veramente poco.
Davanti alla morte del ragazzo si lancia nella ricerca esasperata di un rabbino quasi fosse una figura ieratica indispensabile per una sepoltura, nemmeno si pone il problema che un rabbino, in assenza di minyian non potrebbe fare nulla di più di quello che farebbe lui da solo. Qualsiasi ebreo di minima cultura avrebbe raccolto altri nove uomini per permettergli di seppellire il corpo e quindi di dire il Kaddish. In questa sua ricerca esce dal suo kommando e si intrufola in altri, cosa che era a dir poco improbabile visto che i kapò se ne sarebbero accorti ed i soldati lo avrebbero freddato all’istante.
In una scena del film, Saul è piegato sul corpo esanime del ragazzo e lo lava, in una sorta di rehitzà con una spugna; in testa ha un basco e davanti al morto se lo toglie come in segno di rispetto… la cosa mi ha fatto molto riflettere, il rabbino visto come “surrogato” del prete, il cappello tolto per rispetto…
Saul sembra essere in primis un ungherese; ebreo quasi per sbaglio.
Finita la proiezione si è aperto il dibattito con l’attore, l’ultima domanda riguardava le reazioni del pubblico presente nei vari stati europei nei quali il film era stato già mostrato in anteprima. Röhrig/Saul ha risposto che in ognuno di questi il film è stato accolto con grande calore e soddisfazione, unica eccezione, con una reazione più pacata, è stata la Germania. Secondo l’attore ciò è dovuto al fatto che, specialmente le nuove generazioni tedesche, non hanno fatto i conti con il loro passato. A quel punto, dissentendo completamente con questa affermazione, mi sono sentito quasi in dovere di chiedere quali fossero state invece le reazioni nell’Ungheria di Viktor Orbán, quella dei fili spinati contro l’avanzata di un esercito di derelitti in fuga dalla morte. La mia domanda non voleva essere per nulla polemica, mi aspettavo infatti una risposta diversificata tra la reazione del pubblico e quella ufficiale governativa.
Dopo un’occhiata non amichevole, Röhrig ha risposto che il film rappresenta un grande vanto per l’Ungheria tutta e che le scolaresche corrono a vederlo in massa.
All’uscita dalla sala, mentre scambiavo i miei pensieri con la presidente della Provincia di Trieste, Röhrig mi si è avvicinato con l’indice puntato ed in inglese mi ha assalito verbalmente dicendomi che ha notato la mia Kippà; io pensavo scherzasse e gli ho sorriso dicendogli che ero di origine ungherese, cercando di creare una bella sinergia con lui. Non scherzava ed ha continuato dicendo che aveva notato subito la mia faccia da comunista di *****. Noi ebrei di sinistra vediamo il male solo in Orbán ma il vero male si chiama Putin e Obama. Da notare che Röhrig risiede a New York…
Dopo alcuni momenti ancora molto accesi e un po’ deliranti, nei quali ha tirato in ballo l’accordo sul nucleare tra Obama e Iran, sono riuscito a tranquillizzarlo dicendo che su quell’argomento la pensavo come lui, ma che la mia domanda era completamente diversa e che parlando di USA e Russia aveva solo spostato il focus della stessa su campi diversi.
Non ho continuato perché ho capito che probabilmente i soldi per la produzione erano arrivati proprio da quel governo ungherese nel cui parlamento siede anche Marton Gyongyosi che nel 2012 aveva lanciato la proposta di “schedare” tutti gli ungheresi di fede israelitica… successivamente, a seguito delle innumerevoli proteste interne ed esterne, leggermente edulcorata dicendo che voleva capire quanti fossero gli ebrei ungheresi con la doppia cittadinanza, ungherese e israeliana.
La mia più grande preoccupazione, alla luce di questo spiacevole evento in sala cinematografica, è che l’eventuale Oscar a Il figlio di Saul come Miglior film straniero, premiando l’Ungheria, possa servire da grimaldello per forzare, sdoganare e allontanare qualsiasi ombra nera legata a movimenti xenofobi, razzisti, ipernazionalisti ed antisemiti di una parte dei componenti di quel governo.
Mauro Tabor
(9 febbraio 2016)