Qui Milano – “I social network della propaganda
sono una minaccia per la libertà”

Wael Ghonim 2La testimonianza di Wael Ghonim, l’attivista egiziano che operando sui social network ha scatenato le primavere arabe e la caduta del regime egiziano di Mubarak, è stata al centro dell’intervento del direttore della redazione giornalistica dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Guido Vitale, in apertura della serata milanese dedicata alla sicurezza informatica.
L’ingegnere informatico di Google, che oggi si è rifugiato negli Stati Uniti e può esprimersi liberamente, analizza l’illusione di una facile democratizzazione e di un facile progresso attraverso l’utilizzo della rete, parla del fallimento delle primavere arabe e racconta gli effetti catastrofici determinati da un uso dei social network sempre più orientato a diffondere il sospetto, il complottismo, la maldicenza e il pregiudizio e sempre meno utilizzato per stimolare il confronto sereno e sincero fra le persone. I social network, più che uno strumento di liberazione e di libera espressione, sono divenuti uno strumento di asservimento, di prevaricazione e di potere. Uno strumento di propaganda e non di informazione. Opporsi a questa minaccia, sviluppando sulla rete una presenza orientata al libero confronto, è la priorità di ogni minoranza consapevole.
Ecco il testo dell’intervento di Ghonim.

Wael Ghonim 1“Una volta ho detto, ‘Se volete liberare una società, tutto ciò che vi serve è Internet’. Mi sbagliavo.
Ho detto queste parole nel 2011, quando una pagina Facebook che ho creato anonimamente ha aiutato la rivoluzione egiziana. La Primavera Araba ha svelato il potenziale dei social media, ma ha anche rivelato i suoi più grandi difetti. Il mezzo che ci ha uniti per far cadere dittatori alla fine ci ha divisi. Vorrei condividere la mia esperienza con i social media usati per l’attivismo e parlare di alcune difficoltà che ho personalmente affrontato e cosa possiamo fare a riguardo.
All’inizio dei 2000, gli Arabi invadevano il web. Desiderosi di conoscenza, di opportunità, di connettersi con il resto delle persone in giro per il mondo, scappavamo dalle nostre frustranti realtà politiche e vivevamo una vita virtuale, alternativa. Proprio come molti di loro, io ero completamente apolitico fino al 2009. All’epoca, quando andavo sui social media, incominciavo a vedere sempre più Egiziani che aspiravano ad un cambiamento politico nel paese. Mi sentivo di non essere solo.
Nel giugno del 2010, l’Internet mi cambiò la vita. Mentre ero su Facebook, vidi un’immagine, una foto terrificante, di un corpo morto, torturato di un giovane ragazzo egiziano. Si chiamava Khaled Said. Khaled era un ventinovenne di Alessandria che fu ucciso dalla polizia. Mi sono visto in questa foto. Pensai, “Potrei essere Khaled.”
Non riuscivo a dormire la notte, e decisi di fare qualcosa. Creai una pagina anonima su Facebook e la chiamai “Siamo tutti Khaled Said.” In appena tre giorni, la pagina aveva 100 mila adesioni, altri Egiziani che condividevano la stessa preoccupazione. Quello che stava accadendo doveva essere fermato.
Ingaggiai un co-amministratore, Abdel Rahman Mansour. Lavorammo insieme ore ed ore. Facevamo il crowdsourcing delle idee delle persone. Li coinvolgevamo. Facevamo appello ad agire, condividendo le notizie che il regime non voleva gli Egiziani conoscessero. La pagina diventò la pagina più seguita nel mondo arabo. Aveva più fan di media affermati e anche delle celebrità più famose.
Il 14 gennaio, 2011, Ben Ali scappò dalla Tunisia dopo crescenti proteste contro il suo regime. Vidi un barlume di speranza. Gli Egiziani sui social media si stavano chiedendo, “Se la Tunisia ce l’ha fatta, perché noi no?” Postai un evento su Facebook e lo chiamai “Una Rivoluzione contro la corruzione, l’ingiustizia e la dittatura.” Feci una domanda ai 300 mila utenti sulla pagina: “Oggi è il 14 gennaio. Il 25 gennaio è la giornata della polizia. Una festa nazionale. Se 100 mila di noi si troveranno nelle strade del Cairo, nessuno ci potrà fermare. Mi chiedo se ce la potremo fare.”
In soli pochi giorni, l’invito raggiunse oltre un milione di persone, e oltre 100 mila persone confermarono. I social media furono cruciali per questa campagna. Aiutò un movimento decentralizzato a crescere. Aiutò le persone a capire che non erano sole. E per il regime fu impossibile fermaci. In quel momento, non l’avevano nemmeno capito. Il 25 gennaio, gli Egiziani riempirono le strade del Cairo e di altre città, esigendo un cambiamento, rompendo la barriera della paura e annunciando una nuova era.
Poi arrivarono le conseguenze. Poche ore prime che il regime togliesse Internet e le telecomunicazioni, stavo camminando in una strada buia del Cairo, attorno a mezzanotte. Avevo appena twittato, “Pregate per l’Egitto. Il governo starà pianificando un massacro per domani.”
Fui colpito in testa. Persi l’equilibrio e caddi, per trovarmi circondato da quattro uomini armati. Uno mi coprì la bocca e gli altri mi paralizzarono. Sapevo che la sicurezza di stato mi stava sequestrando.
Mi trovai in una cella, ammanettato, bendato. Ero terrorizzato. Così come la mia famiglia, che cominciò a cercarmi negli ospedali, stazioni di polizia e negli obitori.
Dopo la mia scomparsa, alcuni dei miei colleghi che sapevano che ero l’amministratore della pagina dissero ai media di come fossi connesso a quella pagina, e che ero probabilmente stato arrestato dalla polizia di stato. I miei colleghi in Google cominciarono una campagna di ricerca per trovarmi, e gli altri manifestanti nella piazza richiesero il mio rilascio.
Dopo 11 giorni di buio completo, fui liberato. E tre giorni dopo, Mubarak fu obbligato a dimettersi. Fu il momento più grande e stimolante della mia vita. Era un momento di grande speranza. Gli egiziani hanno vissuto una utopia di 18 giorni durante la rivoluzione. Tutti condividevano l’idea che potessimo veramente vivere insieme nonostante le nostre differenze, che l’Egitto dopo Mubarak sarebbe stato aperto a tutti.
Ma sfortunatamente, gli eventi postrivoluzionari arrivarono come un pugno in pancia. L’euforia svanì, non siamo riusciti a creare consenso, e le difficoltà politiche portarono ad un’intensa polarizzazione. I social media amplificarono questa situazione, facilitando lo spargimento di informazioni false, voci, camere di risonanza e insulti. discorsi di odio. L’ambiente era tossico. Il mio mondo in rete diventò un campo di battaglia pieno di troll, bugie, odio. Incominciai a preoccuparmi della sicurezza della mia famiglia. Ma ovviamente, non c’entravo solo io. La polarizzazione raggiunse il culmine tra le due potenze principali – i sostenitori dell’esercito e gli Islamici. Le persone del centro, come me, iniziarono a sentirsi senza speranza. Entrambi i gruppi volevano che tu ci unissimo a loro; o eri con loro o eri contro di loro. Il 3 luglio 2013, l’esercito depose il primo presidente dell’Egitto eletto democraticamente, dopo tre giorni di proteste popolari che esigevano le sue dimissioni.
Quel giorno presi una decisione molto difficile. Decisi di rimanere completamente silenzioso. Era un momento di sconfitta. Rimasi in silenzio per più di due anni, e usai quel tempo per riflettere su ciò che era successo, cercando di capire perché era successo. Capii che sebbene sia vero che la polarizzazione è spinta dal nostro comportamento umano, i social media determinano questo comportamento e ne aumentano l’impatto. Diciamo che volete dire qualcosa non basato su fatti, litigare o ignorare qualcuno che vi sta antipatico. Sono tutti impulsi naturali, ma a causa della tecnologia, questi impulsi sono a portata di click.
Secondo me, ci sono cinque sfide critiche che fanno i conti con i social media.
In primo luogo, non sappiamo come comportarci con le voci. Le voci che confermano i pregiudizi della gente e che ora sono creduti e sparsi tra milioni di persone.
In secondo luogo, creiamo le nostre camere di risonanza. Tendiamo a comunicare solo con le persone con cui siamo d’accordo, e grazie ai social media, possiamo silenziare, smettere di seguire e bloccare tutti gli altri.
In terzo luogo, le discussioni online si trasformano in folle arrabbiate. Probabilmente lo sappiamo tutti. È come se ci dimenticassimo che le persone dietro gli schermi sono persone vere e non solo degli avatar.
Quarto, è diventato molto difficile cambiare opinione. A causa della velocità e della brevità dei social media, siamo obbligati a saltare a conclusioni e a scrivere opinioni crude in 140 caratteri su delle questioni globali complesse. Una volta fatto questo, vivrà per sempre sul web, e siamo meno motivati a cambiare queste opinioni, anche in presenza di nuovi fatti.
Quinto – e secondo me, questo è il più importante – oggi, le nostre esperienze sui social sono progettate in un modo che favorisce la trasmissione piuttosto che le interazioni, post invece di discussioni. commenti superficiali invece di conversazioni profonde. È come se avessimo deciso che siamo qui per parlare l’uno all’altro invece che l’uno con l’altro.
Ho visto come questi cambiamenti hanno contribuito a una società egiziana già polarizzata, ma non si tratta solo dell’Egitto. La polarizzazione è in crescita nel mondo intero. Dobbiamo lavorare duro per capire come la tecnologia possa essere parte della soluzione, piuttosto che parte del problema.
Ci sono molte discussioni oggi su come combattere la molestia online e combattere i troll. Questo è molto importante. Nessuno può non essere d’accordo. Ma dobbiamo anche pensare a come progettare esperienze sui social che promuovano la civiltà e che ricompensino la premura. So che se scrivo un post che è più sensazionale, più unilaterale, qualche volta arrabbiato e aggressivo, avrò più persone che vedono quel post. Otterrò più attenzione.
E se ci focalizzassimo di più sulla qualità? Qual è più importante: il numero totale di persone che leggono un vostro post, o chi sono le persone d’impatto che leggono ciò che scrivete? Non potremmo dare alle persone più incentivi per partecipare a conversazioni, piuttosto che costantemente pubblicare opinioni? O premiare chi legge e risponde alle opinioni con cui non sono d’accordo? E anche, rendere accettabile cambiare idea, o addirittura premiarlo? E se avessimo una matrice che dice quante persone cambiano idea, e questa diventasse parte delle nostre esperienze sui social? Se potessi contare tutte le persone che cambiano idea, probabilmente scriverei con più consapevolezza, cercando di farlo, piuttosto che piacere alle persone a cui già piaccio e che cliccano mi piace solo perché confermo i pregiudizi.
Dobbiamo anche pensare efficaci meccanismi di crowdourcing, per controllare le informazioni diffuse sul web, e premiare le persone che fanno queste cose. In sostanza, dobbiamo riconsiderare l’ecosistema dei social di oggi e ricostruire queste esperienze per premiare il pensiero, la civiltà e la comprensione.
Credendo in Internet, assieme a degli amici abbiamo lanciato un progetto, tentando di trovare risposte e esplorare le possibilità. Il nostro primo prodotto è una nuova piattaforma per le conversazioni. Ospitiamo conversazioni che promuovono comprensione e, si spera, che cambiano il pensiero. Non diciamo di avere tutte le risposte, ma abbiamo cominciato a sperimentare con varie discussioni su diversi problemi, come le razze, le armi, il dibattito sui rifugiati, le relazioni tra Islam e il terrorismo. Queste sono le conversazioni che contano.
Oggi, almeno una persona su tre sul pianeta ha accesso a Internet. Ma parte di Internet è imprigionata dagli aspetti meno nobili del comportamento umano.
Cinque anni fa, ho detto, ‘Se volete liberare la società, tutto ciò che vi serve è Internet’.
Oggi, penso che se vogliamo liberare la società, dobbiamo prima liberare l’Internet”.

(9 febbraio 2016)