Da Damasco in Israele, siriani in cerca di aiuto
“Se vuoi salvare tuo figlio, dovresti portarlo in Israele”. È il consiglio di un medico a una madre che ha appena portato il suo bambino di otto anni nel più vicino ospedale della cittadina in cui vive, in Siria. Un missile è caduto nel giardino davanti alla loro casa. Il bimbo stava giocando con il fratellino più grande, quando l’esplosione li ha investiti. Lui è rimasto gravemente ferito mentre il fratello è stato decapitato davanti ai suoi occhi. Dopo qualche giorno di viaggio è arrivato assieme alla madre al centro medico di Galilea, a Nahariya, dove è stato preso in cura dai medici israeliani. Come questo bambino di otto anni – di cui ha raccontato la giornalista Isabel Kershner sulle pagine del New York Times – sono centinaia i siriani che dall’inizio della guerra civile hanno attraversato il confine per entrare in una paese storicamente nemico e chiedere di essere ricoverati nei suoi ospedali. Negli ultimi due anni all’ospedale di Nahariya sono stati trattati oltre 500 pazienti, molti dei quali minori. “La maggior parte arriva qui in stato di incoscienza – spiegava Masad Barhoum, direttore generale del centro medico, che dista una decina di chilometri dal confine con il Libano – Si svegliano dopo qualche giorno e sentono una lingua diversa, vedono persone estranee. Quando riescono a parlare, chiedono ‘dove sono?’. Sicuramente per loro è una shock scoprire di trovarsi in Israele”. Da quando si è diffusa la notizia dello sconfinamento in Israele di alcuni feriti, il dittatore Bashar Al- Assad li ha pubblicamente accusati di collaborare con Gerusalemme e di esserne delle spie. Per questo, per proteggerne la sicurezza, non vengono pubblicati i loro nomi e resa nota la loro identità. “Quando ci sarà la pace, appenderà una bandiera israeliana al tetto della mia casa”, ha dichiarato il nonno di uno dei piccoli pazienti. Nei pressi del confine siriano, Israele ha realizzato alcuni ospedali da campo per dare il primo soccorso a chi ne ha bisogno. Ci sono anche associazioni impegnate a fornire cibo e vestiario che vengono consegnati ai pazienti prima che tornino in patria. Perché, stando alle fonti ufficiali, nessun siriano è stato accolto come rifugiato in Israele. Un punto diventato oggetto di dibattito all’interno della stessa Knesset (il parlamento israeliano). “Non siamo indifferenti alla tragedia umana dei profughi provenienti dalla Siria (circa tre milioni di persone ha lasciato il paese dallo scoppio della guerra) e dall’Africa. Ci siamo già presi cura di oltre mille feriti dalla Siria e li abbiamo aiutati nella riabilitazione” ha dichiarato a inizio settembre il primo ministro Benjamin Netanyahu, affermando però che Israele è troppo piccolo per prendersi carico dei rifugiati. “Noi dobbiamo controllare i nostri confini, sia dai migranti illegali sia del terrorismo”. A questo scopo il premier ha annunciato la costruzione di una barriera anche sul confine giordano, che andrà a prolungare la rete di difesa già esistente nell’area del Golan. Il diniego di Netanyahu di fronte all’accoglienza dei rifugiati ha sollevato diverse critiche sul fronte internazionale ma anche all’interno dei confini nazionali. Isaac Herzog, capo dell’opposizione, ha contestato la scelta del governo, invitando ad aprire le frontiere ai siriani in fuga. Israele però ha già un problema con i rifugiati, sottolinea il giornalista israeliano Yuval Ben-Ami: “Migliaia di persone (provenienti dall’Africa), definite ‘infiltrati’, e detenute in strutture nel sud del paese”. Una questione complessa, su cui premono diverse ong israeliane e a cui dare una soluzione prima ancora di poter accogliere rifugiati da un paese da sempre considerato ostile.
(14 febbraio 2016)