Qui Firenze – Sergio Levi, lascito vivo
Negli scorsi giorni la dirigenza dell’Ospedale Pediatrco Universitario Meyer di Firenze ha voluto rendere omaggio alla memoria di Sergio Levi, pediatra, considerato uno dei padri della Neuropsichiatria Infantile in Italia, dedicandogli un convegno nel quale è stato presentato il libro Una vita sospesa, scritto dal figlio Giulio Levi, a sua volta medico e neuroscienziato, per ricordarne le vicissitudini, in particolare quelle vissute in un periodo storico drammatico per molti ebrei.
La professoressa Patrizia Guarnieri, storica dell’Università di Firenze, illustra la necessità attuale di rilevanti e minuziose ricerche storiche su quegli anni bui, il valore massimo dello studio degli archivi inaccessibili e dimenticati e l’utilità fondamentale di ritrovare ancora oggi l’aiuto dei testimoni viventi.
Giulio Levi, nato nel 1937, è stato testimone diretto delle vicende paterne, a partire da quando questi, giovane medico ventottenne presso l’ospedalino Meyer, (detto così in quanto spedale dei bambini) ricevette la lettera di sospensione dal servizio il 13 ottobre 1938, firmata dal rettore dell’Università di Firenze Arrigo Serpieri, solerte e puntiglioso nell’applicare le reggi razziste. A Firenze le facoltà più colpite da sospensioni e decadenze dei docenti furono quelle di Lettere e Medicina. In quest’ultima non vi erano professori ordinari, ma furono circa 16 quelli allontanati: prevalentemente oculisti e pediatri, come Nathan Cassuto, oculista morto in lager. Alessandro Fiano, emigrato nel 1939 verso Ramat Gan. Umberto Franchetti, cui viene tolta la libera docenza e si nasconde in casa dei contadini Ciuccoli, poi riconosciuti Giusti, nelle campagne di Arezzo. La Facoltà di Medicina non eseguì l’ordine di sostituirli immediatamente; venne detto che quegli allontanamenti sarebbero state “perdite irrilevanti”, in particolare quelle dei i più giovani, quelli ancora non in carriera. Sergio Levi era il più giovane di tutti, classe 1910. Egli era combattuto sul da farsi per proseguire una vita e una carriera degne insieme alla sua giovane famiglia; sentiva una forte responsabilità verso i suoi figli, Giulio di un anno e Silvia che sarebbe di lì a poco nata dall’amata moglie Matilde Vita. Ma all’interno della sua famiglia vi erano figure legate al fascismo e a Mussolini e alcuni di loro pensavano che nulla di male gli sarebbe accaduto. Egli si ritrovò quasi alle dipendenze e un pochino ricattato dall’abbiente famiglia del suocero, un vero pater dominus. Peregrinò sino a Londra e Parigi alla ricerca di un lavoro ma ritornò con un nulla di fatto. Il figlio Giulio, allora piccolo bambino, descrive nel libro con grande efficacia le ansie, la confusione, le paure, la frustrazione del suo allora giovanissimo papà le cui aspirazioni furono repentinamente troncate. Infine lui e la sua famiglia trovarono rifugio in Svizzera dove il giovane medico esercitò la sua professione nei campi profughi di allora. Nel frattempo gran parte della sua famiglia fiorentina venne portata via dai tedeschi e sterminata: il padre, la madre, un fratello, l’amatissimo cognato e altri. Nel ’45, al ritorno a Firenze, gli venne fatto subito intendere che la carriera interrotta sette anni prima non poteva più essere ripresa nel medesimo ambiente: altri colleghi con le sue stesse aspirazioni avevano preso il suo posto. Il professor Cocchi che molto lo stimava e aveva notato la sua predilezione per gli studi sul sistema nervoso normale patologico, gli offrì il posto di direttore dell’Istituto medico pedagogico Umberto I, che allora ospitava 250 bambini e ragazzi affetti da diverse patologie neurologiche o psichiatriche, disturbi della personalità, autismo, sindrome di Down e altre patologie genetiche.
Il professore riteneva, a ragione, che il giovane e sensibile pediatra avrebbe potuto emergere e dare il meglio di sé sia come clinico sia come studioso. Per Sergio Levi si dischiusero nuovi orizzonti, un grande investimento sul piano umano e scientifico e divenne ciò che forse non avrebbe mai pensato prima di divenire: sollevò l’Istituto e si aprì ad una nuova disciplina in Italia, prendendo contatti forti a Roma con Giovanni Bollea, il longevo padre della Neuropsichiatria Infantile italiana. Sergio Levi morì a soli 56 anni nel 1966, mentre Bollea riuscì a dare un grande contributo innovativo alla disciplina sino all’età di 98 anni. Essi la aprirono alle sue multiformi identità: neurologica, psicologica psichiatrica, sociale, pediatrica, riabilitativa, educativa, pedagogica che oggi a distanza di tanti anni appare ormai acquisito si debbano integrare fra loro all’interno di una disciplina complessa in cui il lavoro multidisciplinare e multiprofessionale è imprescindibile per la buona riuscita delle cure rivolte ai pazienti e alle loro famiglie.
Così la Fondazione Ospedale Meyer, nata nel 1891 come “spedalino dei bambini” per volere del commendatore e marchese russo Giovanni Meyer nel ricordo della moglie Anna, oggi polo clinico e universitario ad alta rilevanza nazionale per la cura e l’insegnamento delle patologie infantili, a pochi giorni dalla scomparsa di un altro grande della Neuropsichiatria Infantile, il professor Pietro Pfanner, si impegna solennemente nella persona del suo direttore Giampaolo Donzelli a tenere nel prossimo futuro altri convegni storico-scientifici di questa portata, atti a migliorare le conoscenze di lati oscuri e lati luminosi della storia della medicina italiana, mettendone a parte anche i giovani lavoratori e studenti che all’interno vi operano.
Bianca Bassi
(15 febbraio 2016)