Umberto Eco: “Smaschero le trame di chi costruisce l’odio”
Puoi essere chi ti pare. Puoi contare su un’autorevolezza smisurata, puoi avere il titolo del più apprezzato e il più noto intellettuale italiano vivente, puoi aver diffuso milioni e milioni di copie dei tuoi scritti in tutto il mondo, puoi rappresentare quello che alcuni chiamerebbero un mostro sacro. E puoi essere anche tanto grande da non farlo pesare sugli altri. Ma non c’è niente da fare, la vigilia di un debutto resta sempre una porta aperta sull’ignoto. E porta con sé quella venatura d’ansia, di curiosità, di impazienza, che ognuno supera a modo suo. Piacerà? Venderà? Sarà capito? Susciterà passioni, polemiche? Subirà attacchi? Nella dolce luce della sua bella casa milanese affacciata sulle mura del Castello Sforzesco, l’intervistato aspetta, apparentemente rilassato, le domande sprofondando in un candido divano. Eppure, forse non vorrebbe ammetterlo apertamente, ma è evidente, mentre ridacchia sotto i baffi e mastica un bocchino senza sigaretta: alla regola della vigilia non sfugge nemmeno il professor Umberto Eco.
Siamo a trent’anni esatti dall’apparizione nelle librerie de Il nome della rosa. Il semiologo, già allora molto affermato come studioso del linguaggio, dei segni e della comunicazione, avrebbe fatto sapere al mondo di essere anche un grande romanziere. Quindici milioni di copie di una prima prova tradotta praticamente in tutte le lingue, innumerevoli spettatori del film che fu tratto dall’opera. Non era solo l’affermazione di un grande romanziere, era anche l’inizio di un genere letterario tutto particolare, fatto di rigore e di fondatezza documentale e al tempo stesso di fascinazione, di avventura, di feuilletton. E poi ancora quattro romanzi, Il pendolo di Foucault, L’isola del giorno prima, Baudolino, La misteriosa fiamma della regina Loana. Per arrivare al presente, a questi tempi arruffati e inquietanti, con Il cimitero di Praga (Bompiani editore), il libro che a partire dall’ultimo venerdì di ottobre molti lettori italiani non potranno fare a meno di prendere in mano.
Professore, ci siamo, che succederà nei prossimi giorni?
Questo non lo so. L’unica cosa che posso dire è che a scrivere Il cimitero di Praga mi sono divertito. È stato un lavoro lungo, una ricerca rigorosa, perché la materia trattata è molto delicata e ho voluto riportare solo fatti veri e documentati, parlare di persone realmente esistite, di vite realmente vissute.
Tutti personaggi veri?
Tutti meno uno, il protagonista. Che è anche l’anello di congiunzione in questo giro infernale di manipolazioni, di falsi, di delitti, di bassezze e di veleni. Questo certo Simonini che condotto solo dall’odio lega assieme tutte le trame fino ad arrivare al capolavoro dell’infamia antisemita.
Lui solo è un personaggio immaginario, allora.
Insomma, immaginario fino a un certo punto. Diciamo che è mezzo inventato e mezzo vero.
Com’è possibile?
È possibile, perché vede, questo lurido Simonini che ordisce le trame, in realtà sarebbe il nipotino di un altro Simonini, un tale che all’inizio dell’Ottocento si prese la briga di mandare in giro un lungo documento delirante di antisemitismo, uno che vedeva complotti ed ebrei dappertutto e ne denunciava ossessivamente i poteri e le trame. Uno che rimestava nel calderone dell’odio e del pregiudizio.
Insomma ci dobbiamo aspettare un libro di storia…
In un certo senso sì. È la maniera di raccontare la storia, le vicende del diciannovesimo secolo e quelle quelle che hanno condizionato il ventesimo, che prende un poco il ritmo del romanzo, del feuilletton.
Guardi, il vignettista di Pagine Ebraiche Enea Riboldi la ritrae sul numero di ottobre che annuncia in anteprima l’uscita del suo libro nelle vesti di un apprendista stregone. Il cappello da mago in testa, i fumi venefici che si sprigionano da un calderone dove si fanno distillare chissà quali diavolerie. E dalla pentola spunta anche la copertina di uno dei grandi classici dei falsi dell’odio, I Protocolli dei Savi Anziani di Sion. Dobbiamo preoccuparci?
Intendiamoci, questo libro non parla di gente simpatica, il lettore deve essere avvertito.
In che senso?
Vede, dopo aver dedicato una delle mie opere precedenti al primo dei miei nipotini, avrei voluto dedicare una nuova opera al secondo. Ma in questo caso non me la sono proprio sentita. Perché i personaggi che si aggirano per le pagine sono tutti, immancabilmente insopportabili. Davvero spregevoli.
Il libro riporta le deliranti ossessioni e le trame di un antisemita gonfio di odio. Ma perché sprofondare il lettore in questa roba? Non ha il timore che la lettura del suo romanzo stimoli la morbosità soprattutto delle per- sone più influenzabili?
Lei teme che mi sia messo a scrivere con cattive intenzioni? Con malevolenza?
No, non è questo. Ma gli effetti dell’idea di mettere in circolazione un libro che probabilmente è destinato a raggiungere una grande diffusione li ha calcolati? Non vede rischi dietro l’angolo?
Il fatto è che il libro da questo punto di vista non dice proprio niente di nuovo.
Si limita a riportare rigorosamente documenti e materiali già pubblicati, ampiamente diffusi e semmai tenta di scoprire cosa c’è dietro. Come funzionano i meccanismi dell’odio. Chi se ne serve. E perché.
Insomma, non si tratta di merce pericolosa?
Vede, chi scrive un trattato di chimica può sempre aspettarsi che qualcuno lo utilizzi per avvelenare la nonna. Esistono sempre dei malintenzionati. Ma in genere non credo proprio abbiano bisogno di leggere i miei romanzi per farsi le loro idee. Trovano già in larga circolazione tutto quello che serve a loro. A cominciare dai Protocolli dei Savi Anziani. Con il mio libro, al contrario, mi sono sforzato di smascherarli, di mettere in luce le loro trame.
Ma ciò non toglie che il lettore potrebbe immedesimarsi, potrebbe nutrire una certa simpatia per il protagonista.
Non credo, tutti i personaggi che appaiono in scena sono insopportabilmente luridi e cinici. Non vedo tratti umani in cui un lettore sano possa identificarsi.
Da dove è nata l’idea di far ruotare l’ultima delle sue complesse costruzioni romanzesche attorno ai falsi dell’odio e agli autori di queste infamie?
È lo sfogo di un’ossessione che mi accompagna da molto tempo. Ne ho già scritto in passato. In alcuni passaggi dei Pendolo di Foucault, nella serie delle mie conferenze a Harvard. E nella prefazione a Il complotto, la straordinaria opera che Will Eisner ha dedicato proprio alla storia dei Protocolli.
Con The Plot (nella versione italiana Il complotto, Einaudi editore), il padre newyorkese della graphic novel traccia in un quadro sconvolgente la storia di questo falso destinato a divenire il testo classico delle teorie complottiste antisemite. Mille volte smentito e sbugiardato dalla realtà, oltre che dalla logica. E mille volte destinato a essere ristampato, portato all’attenzione di nuovi lettori per rinnovare il loro odio nei confronti del diverso. La sua prefazione è un piccolo saggio dedicato ai meccanismi dell’odio. La ricetta per comprendere perché per alcuni sia necessario credere al di là di ogni logica e di ogni dato di fatto alla teoria del complotto ebraico.
C’è un noto antisemita degli inizio del secolo scorso che lo ha detto molto chiaramente: “Che importanza ha accertare che il contenuto dei Protocolli sia vero o falso. Quello che più conta è che ci faccia comodo, che risponda alle nostre esigenze”.
Quali esigenze?
Quelle di aver un nemico. Qualcuno cui addebitare le responsabilità di quello che succede. Qualcuno la cui ombra faccia paura. Un nemico su cui concentrare l’attenzione. L’antisemitismo è la malattia mentale di chi ha bisogno di prendersela sempre e comunque con qualcuno. Per vigliaccheria, o per pochezza.
Qualcuno ha osservato che tutti i personaggi de Il cimitero di Praga parlano secondo gli stessi canoni, utilizzano lo stesso linguaggio.
Certo, perché il linguaggio di chi ha bisogno di odiare accomuna tutti coloro che ne sono prigionieri.
Ma perché prendersela proprio con gli ebrei?
Cosa vuole, non ce la si può mica prendere con gli Ottentotti. Un nemico serve sempre ed è meglio che sia in mezzo a noi, che esprima una forma di onnipresenza e di inquietante creatività.
Al di là dello scorrere della narrazione, il cimitero di Praga emana un fascino molto forte sul lettore proprio per la sua capacità di raccontare la Storia. Una Storia rigorosa, ma scritta in forma di romanzo popolare ottocentesco. E il sapiente utilizzo di un apparato iconografico molto particolare contribuisce a suggestionare chi sfoglia le pagine. Come sono scelte le illustrazioni che accompagnano le sue pagine?
È vero, c’è una stretta interdipendenza fra testo e immagine. E le immagini che sono state scelte sono tutte autentiche. In genere provengono da opere della mia collezione privata e sono immagini davvero legate ai fatti narrati. In altri casi è quasi l’immagine, che in qualche modo deve aver colpito la mia fantasia, e prende vita, si anima per scrivere la pagina che le appartiene.
Qui torna alla ribalta un altro suo vecchio vizio, quello del collezionista.
È vero, sono diventato un bibliofilo e un collezionista. Ma non è un vecchio vizio. È una passione che è cresciuta con l’età e un poco anche con il successo di letterato, perché è una passione dispendiosa. Sono un vecchio professore, ma un giovane letterato. Ho pubblicato il mio primo vero romanzo solo trent’anni fa.
In questo caso il vecchio professore e semiologo e il giovane romanziere hanno lavorato a quattro mani. Torniamo per esempio ai codici espressivi dei falsari dell’odio che affollano Il cimitero di Praga.
È gente capace di dire tutto e il contrario di tutto. Secondo loro gli ebrei sono pieni di malattie eppure più longevi degli altri, non hanno mai creato nulla di valore eppure controllano la cultura, le arti e l’economia, sono repellenti eppure l’unica ragazza ad attrarre il giovane Simonini è una giovane del ghetto di Torino. Ognuno coltiva i suoi cliché, nessuno persegue la coerenza.
Ma qui sconfiniamo nell’attualità nostrana.
Direi di sì. Qui siamo al dossieraggio dei giorni nostri che riempie le pagine dei giornali. Alla tendenza a stimolare sospetti disseminando segnali contorti o fabbricati a tavolino. Ma anche alla grossolanità ormai sempre più diffusa nella società italiana che porta in ogni ambiente accademico o scientifico, in aziende ed enti che si vorrebbero rispettabili, i dirigenti e i dipendenti a scambiarsi messaggi insultanti di posta elettronica, accuse deliranti, sgarbi gratuiti estesi a un numero sempre maggiore di lettori. Dicerie, malevolenze, falsità pretese notizie. Fino ad arrivare a una grande rissa universale, un polverone in cui tutte le questioni si confondono in un avvilimento generalizzato.
A chi si riferisce?
Naturalmente a un certo modo di fare giornalismo, di condurre operazioni a tavolino per poi ossessionare il lettore con baggianate colossali che finiscono per distogliere l’attenzione dalle questioni reali. Ma anche all’imbarbarimento delle relazioni interpersonali e di lavoro cui stiamo tutti assistendo in prima persona. Alla cultura del copia incolla e della citazione arbitraria, di un passaparola pressapochista e sempre malevolo che sta trascinandoci sempre più in fondo.
E alla fine, ce la si può sempre prendere con gli ebrei?
Sì, il rischio esiste e la storia dei veleni e dei falsi dell’antisemitismo ottocentesco cui il libro è dedicato è anche la nostra storia, inquina ancora il nostro presente. Non c’è niente di nuovo sotto il sole. I servizi sono sempre stati deviati, i giornalisti spesso corrotti e pressapochisti e gli ebrei sono sempre stati oggetto, proprio per la loro capacità di essere soggetto.
Che intende?
Gli ebrei sono i depositari della civiltà del libro e della cultura e anche se non sono più i tempi dei Rotschild, se molte differenze nella società contemporanea sono meno marcate, resta la loro impronta. Per questo sarebbe difficile per gli imbecilli trovare un nemico migliore. Il nemico serve a chi soffre di un’identità debole e un malinteso spirito di gruppo o un malinteso patriottismo sono spesso, purtroppo, l’ultimo rifugio delle canaglie.
Ieri come oggi?
A me pare ieri come oggi. E non ho bisogno di evocare la cultura della curva sud. La retorica populistica parte dall’identificazione di un nemico. Berlusconi ha inventato i comunisti quando ormai non c’erano più.
I suoi libri vanno in mano a molti lettori. Probabilmente avverrà anche nel caso di questa sua sesta prova letteraria. Da questo “Cimitero di Praga”, che rimette in gioco tutti i veleni della nostra storia, c’è da temere anche reazioni risentite?
Capisco che possa preoccupare qualcuno, ma a mio avviso del tutto a torto. Non si raccontano che fatti reali, anche se molto gravi, e dobbiamo necessariamente conoscerli, rivederli in prospettiva. Il mondo ebraico in genere elabora reazioni meditate e diversificate, non univoche e non bigotte. Altro potrebbe essere per identità diverse…
Nel libro non si fanno sconti. Pensa forse a possibili malumori in ambienti cattolici, visto che non si manca di mettere in luce l’antisemitismo virulento che il mondo cattolico fu capace di esprimere? O a chi altro?
Che i gesuiti della Civiltà Cattolica siano stati dei forcaioli spaventosi lo sanno tutti. Che i primi socialisti svilupparono un vero e proprio filone di pensiero violentemente antisemita è un fatto del tutto reale e documentato. E anche tutto il resto è ben documentato. Se le cose sono andate come sono andate non ci posso fare niente. Quello che conta è cosa vogliamo imparare dalle lezioni del passato.
Professore, confessi, voleva scrivere un romanzo o un libro di storia?
Non ci sono vicende più avventurose e più appassionanti di quello che succede nella realtà. Basta saperla osservare, la realtà ci offre spunti ben più avventurosi di tutte le fantasie di cui siamo capaci.
Guido Vitale