Il lungo duello della meglio gioventù
e l’amicizia in quel libretto di sorrisi
Non si può vivere di solo umorismo yiddish, di barzellette sugli ebrei s’è scritto (forse) troppo. Ci siamo dimenticati che la parodia, in Italia, è un genere di scrittura dove la cultura ebraica ha lasciato maestri insigni, come dimostra il libretto di Emanuele Artom e Guido Bonfiglioli.
Stampato dalle Edizioni dell’Eridano nel 1937 è una vera e propria rarità bibliografia. Salvo errore, e il Sistema bibliotecario nazionale sbaglia raramente, se ne conservano due soli esemplari. Uno presso la Biblioteca Nazionale di Firenze, l’altro a Torino, presso la Comunità Ebraica (è l’esemplare su cui è modellata l’edizione anastatica promossa dall’Archivio Benvenuto e Alessandro Terracini).
Per chi conosce e ammira l’autore dei Diari, uno dei testi più rappresentativi non solo della letteratura resistenziale, ma anche della cultura ebraica nel suo insieme, la riedizione di un libretto dove Emanuele Artom figura come coautore, apparirà, ci si augura, come una sorpresa: lieta come tutte le cose inattese che collaborano a ricordarci il volto sorridente delle vittime.
La colpa più grave che si può attribuire al fascismo non consiste nelle sciocchezze che esso pronunciò, cui talvolta diamo troppo credito, ma nei pensieri che non vennero più pensati. Su Emanuele Artom pesa il rimpianto di una vita incompiuta: possedeva la dote del coraggio sorridente, che Saba aveva individuato in Piero Gobetti. Un più approfondito riesame di quanto ci ha lasciato potrà sorprendere il lettore che non conosca per intero la sua opera. Stava per compiere 29 anni quando, il 7 aprile 1944 moriva in una cella delle Carceri Nuove a Torino, in seguito alle brutali torture subite.
Era nato il 23 giugno 1915, in un ambiente famigliare colto e agiato: il padre, Emilio, era un insegnante di matematica al Liceo G. Ferraris, il nonno, Elia Samuele, era stato un cultore instancabile di studi biblici e di storia ebraica antica. Ebbe Augusto Monti come maestro al Liceo D’Azeglio, che lo iniziò alla filosofia crociana e allo studio della cultura classica.
Nella facoltà torinese di lettere entrò nell’autunno del 1933, dove segui corsi di Santorre Debenedetti per la filologia romanza e Augusto Rostagni per la letteratura latina; ma non s’accontentava dello studio scolastico, sapeva sorridere e amava giocare con le parole.
Nella realizzazione di questo libretto Emanuele s’incontrò con un allievo del D’Azeglio di alcuni anni più giovane di lui, Guido Bonfiglioli (“Un giovane barbaro dal corpo scultoreo”), il “Guido” atletico e muscoloso immortalato da Primo Levi in uno dei racconti più strani e per certi versi crudeli de L’altrui mestiere
(Un lungo duello). Questa antologia di parodie poetiche ispirate al mito di Elena usci nell’anno in cui Artom si laureava e dunque di un biennio circa precede l’inizio della scrittura del Diario (mentre il Guido “monumento effimero del vigore terrestre” tramandatoci da Primo Levi è quello dello studente liceale, fissato in un’istantanea).
Mano a mano che ci si avvicina al 1938 gli interessi di ricerca di Emanuele Artom evolvono dalla storia letteraria, dai classici della letteratura verso la storia del Risorgimento.
Si avvicina alla casa editrice Einaudi, avvia un dialogo epistolare piuttosto interessante con Cesare Pavese, che gli affida in traduzione un’opera minore di Erodoto. Legge per la prima volta Kafka e Dostoevskij, da Santorre Debenedetti riceve in lettura i manoscritti di una scrittrice debuttante, Alessandra Tornimparte, alias Natalia Levi Ginzburg.
La scelta partigiana è immediata, novembre 1943. Luogo prescelto sono le valli valdesi. Al momento del suo ingresso in banda le riflessioni diaristiche, iniziate prima dell’inizio della guerra, si infittiscono. Nel marzo 1944 i grandi rastrellamenti tedeschi nelle valli Germanasca e Chisone costringono Emanuele e i suoi a fuggire verso il colle Giulian, ma vengono raggiunti dai tedeschi. Con altri compagni viene portato alle Nuove. La sua immagine, deturpata, con la dicitura “Bandito ebreo catturato”, apparirà sul settimanale bilingue “Der Adler”. Verrà ritrovato morto in una cella la mattina del 7 aprile: “Il suo corpo era spaventosamente livido”, ricorderà un testimone, Gino Sandri (Ming).
Nei boschi di Stupinigi, sulle rive del Sangone, alla periferia di Torino, dove si disse che era stato sepolto, il suo corpo non è mai stato trovato. Molti gli elementi della modernità dei Diari. Ne vorrei indicare soltanto tre. Innanzitutto la lucidità con cui descrive la vita partigiana, senza orpelli, quasi presagendo i disastri che causerà, nel dopoguerra, una certa mitografia resistenziale: “Può essere che in futuro questo mio spregiudicato e pessimistico diario possa fare cattiva impressione: si dirà che io, arrampicandomi per la montagna mi fermavo a osservare sterpi e sassi – i brutti episodi son numerosi – e non guardavo la vetta e il paesaggio. Errore, errore. Se non vedessi la vetta e il paesaggio non farei la dura salita; ma per timor di retorica preferisco tacere gli alti ideali”.
La Resistenza oggi non è di moda, ma la causa non sarà forse da individuare nella difficoltà che molti storici hanno manifestato di fronte a quello che Artom indicava come dovere precipuo? Bisogna scrivere anche le cose sgradevoli, “perché fra qualche decennio una nuova retorica patriottarda o pseudo-liberale non venga a esaltare le formazioni dei purissimi eroi; siamo quello che siamo: un complesso di individui, in parte disinteressati e in buona fede, in parte arrivisti politici, in parte soldati sbandati che temono la deportazione”. (…)
(da Alberto Cavaglion – postfazione a “Elena o della parodia” – ristampa anastatica dell’Istituto Terracini)
(Pagine Ebraiche, maggio 2013)
(26 febbraio 2016)