La merce del passato

vercelliIn tutta franchezza procura una strana sensazione passeggiare in una importante libreria del centro di una qualsiasi città – non importa quale, ad onore del vero – alla fine di febbraio e vedere che accanto al settore dedicato alla storia, vicino al “sottosettore” Seconda guerra mondiale, vi sia, immediatamente dirimpetto, quello dedicato alla “Shoah-Olocausto”. Robusto e nutrito di titoli, in una scaffalatura di tutto rispetto, vuoi per dimensioni vuoi per estensione. Per soprammercato, nelle immediate vicinanze, una casa editrice di volumi economici ha fatto installare una sorta di piccola colonna, dai colori accesi e “accattivanti”, all’interno della quale campeggiano vistosamente i suoi saggi, quasi tutti dedicati alla cattiveria dei nazisti (e in immediato riflesso, alla bontà delle “vittime”). Pietà, per cortesia. Un profluvio di volumi assedia il lettore. L’occhio distratto lo recepisce come un fatto oramai ovvio, non solo certo nella topografia libraria ma quasi imprescindibile nelle dinamiche della comunicazione culturale. Chi, come il sottoscritto, passa buona parte del tempo della sua esistenza a lavorare su questi temi (ed affini, per così dire) può invece nutrire, in situazioni come quella appena descritta, una sorta di irrisolta ambivalenza. Da una parte registra l’acquisizione del “tema” alla comunicazione pubblica. La quale, per inciso, è cosa diversa dalla coscienza collettiva. Dall’altra, avverte invece l’imbarazzo per una sorta di effetto di intasamento merceologico: tanti libri, moltissime testimonianze (alcune di indiscutibile pregio, altre di valore assai più incerto), saggi poderosi, ponderosi e, auspicabilmente, ponderati insieme a volumi che sembrano soprattutto volere “cogliere l’occasione”, facendo l’occhiolino all’avventore occasionale. Tra questi ultimi, un libro di una nota giornalista assai presente in video, dove campeggia sulla copertina, con inesorabile potenza, la svastica. Quasi che si trattasse di una sorta di brand mercantile. Bando ai moralismi: in una società di mercato il ricorso alla forma merce è ineludibile. Fare la morale a ciò di cui si è (spesso) parte rischia di manifestare quanto meno un atteggiamento insopportabilmente spocchioso se non addirittura falso. Poiché, in tale caso, quasi sempre si criticano le opere altrui per preservare la diffusione delle proprie. Dopo di che, riprendendo il fiato, qualche libero pensiero pur necessita. Come il sapere non implica immediatamente il comprende sempre e comunque, e il comprendere (un’attività perlopiù cognitiva, comunque riflessiva) ancora di meno implica il giustificare (esercizio invece morale), così il trasmettere non garantisce che si consolidi una sorta di consapevolezza preventiva. Per toglierci subito dal pasticcio, evitando il gioco di specchi tra le parole, va detto che la conoscenza richiama sempre l’indagine e l’acquisizione attiva di informazioni, insieme alla costruzione di relazioni di significati tra di esse. In questo caso, tuttavia, in gioco non è tale funzione. Il vero fuoco della riflessione, infatti, ruota intorno alla fruizione collettiva di quell’apparato di idee, cognizioni ma anche sensazioni e percezioni che sempre più spesso etichettiamo come “memoria”. Siamo una società che vuole fare sistematica memoria, anche se fatica, a volte addirittura arranca, nel riconoscersi nella sua storia. La memoria arriva ai destinatari in molti modi ma anche (spesso in maniera prevalente) nella modalità commerciale. Ancora una volta, la questione non è quella di pronunciarsi plebiscitariamente a favore o contro questo stato di cose. Peraltro, nulla muterebbe nei fatti. Piuttosto pare legittimo domandarsi se, a fronte delle tante sollecitazioni che il lettore trova, a volte anche un po’ furbescamente, come ami ai quali abboccare almeno una volta l’anno, non sia il caso di fermarsi un attimo, cercando di ristabilire delle gerarchie di significato. Non si tratta di compilare classifiche o di ingiungere per tutti – nessuno escluso – l’obbligo alla lettura di un testo piuttosto che di un altro. Semmai è in causa la capacità di aiutare a capire che la bulimia non è sintomo di crescita armoniosa bensì il prodotto di un affastellamento di sollecitazioni, senza che da esse derivi un risultato accettabile. Con curiosi ritorni, tipici degli stati di confusione generati dall’eccesso disordinato di segmenti di informazione inopinatamente sovrapposti gli uni agli altri; oppure abbinati alla seduttività di nomi e volti che “bucano il video”, capaci di occupare le serate di tante famiglie, parlando alternativamente del pastone politico, della bassa cucina partitica così come delle peggiori tragedie delle quali ci sentiamo, volenti o nolenti, figli e nipoti. Nessuna gelosia, nessuna preclusione ma anche la consapevolezza che alla fine dei discorsi sul dolore che fu c’è il silenzio rispettoso e deferente, non la cacofonia ossessiva delle parole gettate al vento o inchiostrate su una carta che, finita la stagione delle vendite, rischia di andare al macero. Così come le cose che avrebbe dovuto comunicare.

Claudio Vercelli

(28 febbraio 2016)