La scomparsa del grande filosofo statunitense Hilary Putnam (1926 – 2016)
“Nel 1976, a Oxford, ho passato molto tempo con Peter Strawson, e un giorno a pranzo mi ha fatto un’osservazione che non sono mai riuscito a dimenticare. ‘Di certo metà del piacere della vita risiede nei commenti sarcastici sull’effimera operetta che si svolge sotto i nostri occhi’”. Era dunque questa la massima che ha guidato Hilary Putnam, filosofo ebreo statunitense, scomparso a 89 anni questa settimana. Grande amico di Umberto Eco e di Noam Chomsky, nonostante la sua lunga carriera che ne ha fatto una vera e propria colonna portante della filosofia contemporanea, con tutta l’autorevolezza che insegnare per una vita a Harvard può dare, questo spirito sereno, quasi un po’ pop nonostante la serietà delle implicazioni del suo pensiero, è rimasto sempre intatto.
Nato a Chicago il 31 luglio 1926 da genitori comunisti, la prima parte dell’infanzia di Putnam si è svolta a Parigi, o come diceva lui, il momento della sua vita in cui si chiamava “Hilaire Poot-nomm” per una scelta di suo padre Samuel, studioso di letteratura, traduttore e attivista politico (era collaboratore del Daily Worker, un organo del Partito Comunista Americano), che aveva deciso di trasferirsi nella capitale francese. Sua madre Riva era ebrea, ma Hilary fu cresciuto con un’educazione laica. Dopo quegli anni a Parigi però, il pensiero e la filosofia continentale sono rimasti per lui importanti nel corso di tutta la sua carriera, un’apertura piuttosto insolita per un filosofo americano.
Per riassumere il suo pensiero e le sue evoluzioni occorrerebbe una vera e propria enciclopedia, anche perché le sue riflessioni coprivano praticamente tutti i campi del sapere. Però si può ad esempio citare una sua riflessione che costituisce una di quelle sue incursioni nella cultura di massa e risulterà celebre a molti cinefili amanti della fantascienza, quella dell’ipotetico esperimento del “Cervello in una vasca”. Uno scienziato pazzo mette un cervello in una vasca con un liquido organico e lo stimola elettricamente facendogli credere di avere esperienze nel mondo, come mangiare, dormire, pensare e ascoltare: sono vere esperienze? Secondo Putnam no, ma forse i fan di Matrix, di cui questa immaginaria visione costituisce il celebre fondamento, la pensano diversamente.
La definizione più semplice della sua formazione è quella di filosofo analitico, che indica la corrente anglo-sassone del pensiero filosofico moderno e contemporaneo, in cui molto contano la chiarezza argomentativa e la commistione con le scienze naturali. Anche se per l’appunto Putnam non rinnegò mai la filosofia proveniente dal mondo europeo, in effetti non solo ha dato contributi fondamentali alla semantica, difendendo l’idea che “i significati non stanno nella testa”, cioè sono indipendenti dagli stati mentali degli individui, ma già la sua formazione anche matematica parla chiaro sulle sue inclinazioni. E se i suoi contributi più celebri riguardano la filosofia della mente e la filosofia del linguaggio, nel corso del tempo la sua ricerca ha seguito un disegno più complesso e organico, spaziando dalla metafisica alla filosofia della scienza e della matematica, per toccare l’etica e in tempi recenti la filosofia della religione.
Un ambito, quest’ultimo, che costituisce uno dei tanti cambiamenti per cui Putnam è diventato famoso. Ebreo per nascita, ma cresciuto senza una formazione religiosa, il filosofo ha deciso di tornare all’ebraismo negli anni Settanta, quando suo figlio gli ha chiesto di fare il bar mitzvah. Il risultato è stato che Putnam e la sua famiglia hanno accettato di andare in sinagoga per un anno prima della cerimonia e “ben prima che quell’anno fosse finito le tradizioni e le preghiere ebraiche erano diventati una parte fondamentale della nostra vita”, come ha scritto. Più tardi ha anche pubblicato un breve saggio intitolato Jewish Philosophy as a Guide to Life (La filosofia ebraica come guida per la vita), in cui esaminava il pensiero di Franz Rosenzweig, Martin Buber ed Emmanuel Levinas.
Del resto Putnam si era fatto conoscere per essere una banderuola, o per guardarla da un altro punto di vista, per la sua straordinaria capacità di rivedere le sue posizioni, a volte anche con coraggio e ricevendo alcune critiche. In alcune aree della sua filosofia, riuscì addirittura a essere una voce guida per due parti opposte in un dibattito, come ad esempio in quello a favore o contro la teoria computazionale della mente, secondo la quale essa è costituita dall’insieme dei fenomeni che accompagnano la capacità di previsione, o ne dipendono o la favoriscono, come l’invenzione di soluzioni di problemi e il linguaggio. I suoi cambi di opinione sono diventati talmente famosi che nel suo dizionario satirico Philosophical Lexicon il filosofo Daniel Dennett ha coniato in suo onore il sostantivo “hilary” per definire l’unità di tempo minima per un cambio di idea (ad esempio: “Oh, quello era due o tre hilary fa!”).
Le evoluzioni del suo pensiero sono testimoniate dalla sua vasta bibliografia, che contiene decine di libri. Ha anche fatto in tempo a vedere le bozze della sua ultima opera intitolata Naturalism, Realism, and Normativity, in uscita da Harvard University Press, a cura e con un’introduzione del suo allievo e amico Mario De Caro. E poi, come memoria digitale del suo esprit quasi un po’ giocoso e allo stesso tempo del suo interesse per l’attualità, resta anche il suo blog, fondato nel 2015 all’età di 88 anni. Si chiama “Sardonic comment”, commento sarcastico. Ricorda qualcosa? Beh, quel commento del suo collega Strawson campeggia in alto sulla home page come sottotitolo, accompagnato da una descrizione di Putnam: “Questo blog è consacrato ai commenti, non tutti sarcastici, sull’effimero show filosofico”.
Francesca Matalon
(18 marzo 2016)