Minhag italiano a Natanya
Si sa, le tradizioni culturali e religiose sono una parte fondamentale della storia dell’ebraismo. Immaginate delle famiglie romane trapiantate in Israele, precisamente a Natanya, abituate da sempre a pregare con il loro rito rispettando le tradizioni della città natale. Immaginate poi che sempre quelle famiglie sentano la necessità di continuare a pregare, non solo nello loro case, ma in una sinagoga, come capitava a Roma. Immaginate infine che delle persone straordinarie si siano battute e abbiano lottato per trovare un luogo dove far pregare quelle famiglie e tener vivo quel magnifico rito e quella storica tradizione. Bene, ora smettete di immaginare, perché tutto quello che ho scritto, già da qualche tempo, è una splendida realtà. Ce lo raccontano le foto che spesso compaiono sui social e oggi me lo sono fatto raccontare dal rav che ha compiuto questo miracolo, Aaron Leotardi. Circa due anni fa lo Shaliach della comunità francese di Natanya diede in prestito ad un gruppo abbastanza nutrito di italiani una sala del suo Bet Chabad. Come ho già scritto, la volontà delle famiglie era quella di mantenere viva la tradizione ebraica romana. Non parlando italiano, lo Shaliach francese si mise alla ricerca di un rav che parlasse la lingua e che aiutasse i conterranei nella preghiera. Fu così che contattò rav Leotardi, romano, sposato con un figlio, che dopo un breve periodo di riflessione decise di accettare il trasferimento. L’avventura in Israele iniziò ufficialmente il 1 gennaio del 2015. La comunità italiana a Natanya conta circa 270 persone quasi tutti romani. Fondamentale – mi ha spiegato rav Leotardi – è stato nei primi tempi il supporto di Dario Di Cori, oggi presidente del Bet Chabad italiano. Insieme ad altri volenterosi hanno costruito il tempio che oggi accoglie la maggior parte delle attività, religiose e ricreative. La sinagoga italiana di Natanya ha inoltre la fortuna di avere anche un nutrito comitato femminile molto attivo nell’organizzazione di eventi come il banchetto di Purim, i sedarim, pasti sotto la Sukkah, pasti di shabbat e tutto quello che possa coinvolgere i membri di questa piccola ma attivissima comunità. Poi il Rav ci parla di numeri: il venerdì sera e il sabato mattina partecipano circa una settantina di persone (anche più di 100 nel periodo estivo). La mattina ci si incontra per strada, magari mentre si fa colazione e gli uomini ne approfittano per mettere i Tefillin. La sera il Bet Chabad è sempre aperto, ci sono lezioni di Torah, sulla Parashah e tanto altro ancora. Coscienti del fatto che il fenomeno Aliyah sia in crescita, il rav ci ha spiegato che stanno considerando l’idea di affittare un locale più grande e più accogliente, poi ha concluso con questa frase: “Essendo il nostro tempio autofinanziato, il nostro compito sarà anche quello di cercare i fondi dall’esterno. Continueremo con l’aiuto di Hashem a progredire spiritualmente fino all’arrivo di Mashiach molto presto ai giorni nostri”. Ho voluto scrivere di questa piccola sinagoga romana in Israele, pur essendo tutt’altro che religioso, perché l’entusiasmo del Rav mi ha trasmesso la passione e l’amore che prova per il suo popolo, la felicità di avercela fatta nonostante le tante difficoltà e la certezza di avere Hashem dalla sua parte in questa piccola grande avventura.
Daniele Regard
(18 marzo 2016)