Bandiera bruna sull’Europa?
Dopo i risultati tedeschi, alle elezioni regionali di domenica scorsa, con la discreta (ma non eccezionale) affermazione della destra radicale, pare del tutto evidente una cosa, se mai ce ne fosse ancora bisogno: una parte dell’elettorato europeo, fino alle settimane scorse perlopiù collocata nell’area orientale del Continente, oggi però propensa ad espandersi anche verso l’Atlantico, manifesta un’allergia crescente verso l’evoluzione della crisi in atto e, soprattutto, del modo in cui (non) viene gestita. La cartografia dell’insofferenza è mobile ma non per questo incomprensibile; semmai tutt’altro, andando infatti a ricalco delle peculiari difficoltà nazionali e regionali. Plausibile che alcune forze politiche, anche in Italia, si apprestino ad intercettare il disagio, traducendolo in voti. Siamo, infatti, ben distanti dall’arena tradizionale della destra liberale, trattandosi piuttosto di una rigenerazione dei confini (e del territorio politico, culturale e sociale contenutovi) del radicalismo postfascista. L’obiettivo crescente della polemica è soprattutto l’Unione europea, il suo verticismo apparentemente asettico e indifferente, la distanza tecnocratica che sembra animare le sue “non scelte”, la sostanziale indifferenza verso i crescenti problemi che attraversano le società nazionali. In una parola, l’estraneità delle élite di Bruxelles, come di Strasburgo, rispetto a milioni di “cittadini europei” sempre più in affanno. Non è un caso se l’epicentro del disagio si collochi ad Est, nei paesi recentemente entrati a fare parte dell’Unione, dove il lascito illiberale e antidemocratico dei regimi comunisti, la diseducazione alla politica (laddove si sosteneva, invece, che quei sistemi di potere avrebbero garantito il maggiore coinvolgimento possibile della cittadinanza), i problemi economici lasciati dalle vecchie leadership e la debolezza strutturale delle società locali rispetto al mercato internazionale hanno pesato molto nelle dinamiche che dal 1989 si sono innescate e poi riprodotte. Ma non basta questo riscontro per capire quale sia il vero stato delle situazione. Poiché, come si diceva, se l’onda è montata da Est essa sta investendo, nel corso del tempo, anche l’Europa atlantica. L’insediamento elettorale del Front National nella “nuova versione” – meno fascista e più “popolare”, quindi sociale – voluta da Marine Le Pen ne costituisce un tangibile segno già da tempo. Ed anche una sorta di modello di riferimento: poco ideologia, se essa rimanda ad un modello di adesione al trascorso fascismo; scarsa nostalgia del passato, quanto meno se, come tale, rivendicata nella sua natura di identità (laddove ancora sussiste è semmai affidata perlopiù agli elettori meno giovani, così a quella parte dei gruppi marginalizzati che costituiscono l’attuale minoranza interna); forte attenzione al problema dei diritti sociali, in genere quasi sempre contrapposti all’evoluzione di quelli civili, questi ultimi spesso denunciati come distorsione della “naturale” propensione della società verso la meta dell’auto-riproduzione secondo modelli e cliché immutabili; grande carica moralista (la politica è ridotta a critica non dell’esistente ma a invettiva e ludibrio del “tradimento” delle élite al potere) presentata quindi come propensione a rimettere “al proprio posto” quello che si sarebbe invece corrotto o avrebbe deviato dal giusto corso; appello al “popolo”, presentato come fonte inesauribile e insindacabile di legittimazione; avversione verso ogni forma di mediazione e verso gli stessi “corpi intermedi”, dai partiti alle organizzazioni sociali, tutti intesi come strumenti di perversione dell’interesse pubblico; rimando ossessivo al tema principe delle destre, in particolare quelle radicali, per le quali la radice di ogni conflitto sociale (di per sé già visto come una innaturale e inaccettabile alterazione di un presunto “ordine naturale”) va cercata non nella legittima contrapposizione tra interessi materiali e culturali distinti, dalla cui mediazione si rigenera in meglio la società, bensì dalla presenza di un “nemico interno”, un intruso che, per il fatto stesso di esistere, minerebbe le basi del civile convivere; una oscillazione continua tra la statolatria (lo Stato è tutto, punto di inizio e di conclusione della società) e una commistione tra individualismo anarcoide e comunitarismo di base (l’auto-organizzazione delle comunità, senza l’intervento e la mediazione della sfera pubblica), l’uno e l’altro comunque vissuti in chiavo poco o nulla libertaria, semmai come approdo di una nuova concezione autoritaria e gerarchica dei rapporti sociali; last but not least, la presenza di donne ai vertici di questi movimenti, spesso in veste non solo di “pasionarie” ma di veri e propri capi, un fatto che anche solo una generazione fa sarebbe stato impensabile, poiché il radicalismo di destra nutriva una forte carica di diffidenza verso la partecipazione femminile, riconducendola ad un ruolo esclusivamente subalterno, a tratti prodotto di una connaturata misoginia, all’interno del vecchio trittico «Dio-Patria-Famiglia» ora rinnovato in «stirpe-tradizione-esclusione» (dei diversi da sé). Non è allora un caso se la questione delle migrazioni (che non è riconducibile immediatamente all’immigrazione in massa di stranieri dentro i confini di una nazione, demandando semmai al più generale fenomeno storico della redistribuzione delle popolazioni nello spazio geografico euro-mediterraneo) sia vissuta come il problema per definizione, al quale riallacciarsi in tutti i discorsi pubblici per identificare quello che sarebbe il “nocciolo del problema”. Che cospicui spostamenti di gruppi umani, eventi perlopiù repentini, spesso coatti poiché obbligati dalle circostanze (guerre civili, carestie, ribaltamenti di potere), costituiscano un elemento di fortissimo stress sia per i migranti che per le popolazioni ospiti, è peraltro fuori di discussione. Ma la loro traduzione all’interno di un discorso politico che li riconduce a parametro esclusivo, o prevalente, sul quale misurare tutte le ragioni dei disagi collettivi è ben altra cosa. Poiché costituisce una razionalizzazione semplificatoria della complessità sociale che stiamo vivendo, di fatto non solo non offrendo nessuna reale risposta ai tanti problemi sollevati da quest’ultima ma semmai rischiando di alimentare e quindi di accentuare, attraverso la contrapposizione impotente tra autoctoni (in crisi di status sociale, di ruolo, di integrazione economica e così via) e allogeni (alla ricerca, a loro volta, di una qualche risposta a bisogni che spesso sono simmetrici a quelli delle popolazioni ospiti), gli elementi di un disagio diffuso già in parte preesistente. Semmai le migrazioni lo accentuano, ne mettono in rilievo gli aspetti più aspri e, al medesimo tempo, contradditori. Non è questione di sentimenti né, tanto meno, del cosiddetto “buonismo”, la fallace disposizione d’animo per la quale ponendosi anticipatamente a favore del proprio interlocutore, a prescindere dalla sue intenzioni, reali o presunte, quindi di fatto cedendo alle sue pretese, ne deriverebbe un beneficio comune. Il punto rimanda ad altro, richiamando la gestione della paura da parte della politica e del politico come strumento di governo. Per più aspetti non è una novità ma oggi, in mancanza di politiche espansive, inclusive, redistributive, davanti ad una netta polarizzazione nella distribuzione della ricchezza sociale prodotta ed a una crescente diseguaglianza, la questione si ripropone nella sua drasticità. Il trait d’union tra le cosiddette “forze populiste” – la stessa parola populismo, va riconosciuto, è peraltro oramai così abusata da avere perso molta della sua funzionalità – è fare del timore collettivo verso una qualche “minaccia” un elemento di vera e propria imprenditoria politica, macinando consensi sulla scorta non di un progetto a venire bensì dell’illusoria convinzione che il rifiuto delle condizioni date sia l’unica risposta possibile. Si tratta di un problema in sé, in quanto sposta ossessivamente qualsiasi forma di dibattito e scambio politico dall’asse dell’investimento verso il mutamento a quello della contrapposizione frontale contro quello che già c’è e, presumibilmente, continuerà ad esistere, malgrado i tentativi di esorcizzarlo. Nel caso tedesco, la crisi dei profughi, insieme alle risposte date da Angel Merkel, domina da tempo il dibattito politico. Prevedibile, quindi, che al primo riscontro elettorale, in questo caso le elezioni regionali in Baden-Württemberg, Renania-Palatinato e Sassonia-Anhalt, si andasse ad un confronto di merito. In tutti e tre i Länder, Alternative für Deutschland (AfD), l’unico partito tedesco apertamente contrario alla politica di accoglienza fino ad oggi sostenuta da Berlino, ha mietuto un buon risultato elettorale, oscillando tra il 12,6% e il 24,2%. Un fatto destinato, in tutta probabilità, a radicarsi, segnando il consolidamento di una nuova formazione politica fortemente orientata, se non sbilanciata, sul lato destro dello spettro politico. L’analisi dei flussi elettorali, ancora provvisoria (la fonte è la «Frankfurter Allgemeine Zeitung»), indica tuttavia che il partito guidato da Frauke Petry sarebbe riuscito a sottrarre voti non solo ai cristiano-democratici (278mila elettori) ma anche ai socialdemocratici (147mila), ai verdi (78mila), alla Linke (62mila), ai liberali (32mila) così come all’area dell’astensionismo (poco meno di 400mila persone) e a circa 250mila elettori di formazioni politiche minori o locali. Afd, in buona sostanza, riesce a “punire” non solamente chi si è assunto il compito politico di rivendicare una politica di “apertura controllata” all’immigrazione, a partire dalla cancelliera Merkel, ma anche chi frettolosamente si era accodato ai temi del rifiuto della politica di Berlino, come nel caso di Guido Wolf e Julia Klöckner, i due candidati di punta della Cdu in Baden-Württemberg e in Renania-Palatinato, i quali alla vigilia del voto avevano cercato di guadagnare attenzioni e consenso prendendo le distanze dalla politica di accoglienza. Qualcosa che sembra ricordare l’atteggiamento del premier socialdemocratico slovacco Fico il quale, cercando di sottrarre alle forze politiche più radicali spazio d’azione, si era accodato ai loro temi di battaglia (a partire dall’antieuropeismo passando per la chiusura delle frontiere) salvo poi esserne travolto al momento del voto, in una specie di vero e proprio autogol elettorale. Non di meno, se la questione di come trattare la complessa partita dei profughi è al centro delle contrapposizioni politiche, nelle recenti vicende tedesche hanno contato anche il radicamento e la credibilità dei singoli esponenti politici. A mitigare il presunto plebiscito sulle politiche di accoglienza c’è il buon risultato di uomini come Winfried Kretschmann, leader dei verdi in un Land tradizionalmente conservatore quale è il Baden-Württemberg. L’uomo politico ha infatti garantito al suo partito verso un clamoroso 30,3% di consensi, mentre in Renania-Palatinato è stato solo grazie all’elevata popolarità personale di Malu Dryer se la socialdemocrazia tedesca è riuscita ad evitare la terza pesante sconfitta in ordine di successione. Sia Kretschmann che Dryer sono a ricalco delle posizioni di Merkel sulle politiche verso i migranti. Più in generale, se l’atteggiamento verso questi ultimi gioca (e giocherà) comunque un ruolo di crescente importanza, non è meno vero che esso si inserisce all’interno di un meccanismo che unisce alla questione della rappresentanza politica il discorso sulla protezione sociale (sia reale che percepita). Anche in questo caso, le prime indagini sulla composizione del voto indicano che la mobilità elettorale verso i gruppi più radicali è fortemente praticata dalle fasce economicamente più deboli della popolazione (a partire dai giovani e dai precari), alla ricerca di garanzie che ritengono non offertegli dall’establishment. Un elemento, quest’ultimo, che si riconnette alla persistenza nelle regioni orientali della Germania di un diffuso senso di marginalità, o comunque di subordinazione, rispetto ai più ricchi Länder occidentali. I dati di elezioni parziali, amministrative, in un paese dell’Unione pur importante qual è la Germania, non fanno la differenza in assoluto per il nostro Continente. E tuttavia indicano come il trend del radicamento di una destra aggressiva e determinata, poco o nulla liberale, che vezzeggia a tratti spudoratamente e impudicamente, con richiami un tempo impensabili, al passato, giocando soprattutto sui varchi aperti dall’afasia dei gruppi dirigenti europei, sia un fenomeno di lungo periodo. L’ossessione che queste formazioni politiche nutrono nei confronti della “diversità”, e quindi delle minoranze, ne è un tratto costitutivo. Alla prima, come alle seconde, è attribuito il carattere di minaccia mortale. L’idea di popolo alla quale si richiamano non è quella che deriva dalla moderna cittadinanza inclusiva bensì dall’appartenenza etnica. Che alla crisi delle società si risponda con il sogno, destinato a trasformarsi in incubo, delle “piccole patrie omogenee”, quelle composte da individui che intratterrebbero tra di loro ancestrali legami di sangue, vincoli di reciprocità profondi perché non solo culturali ma anche e soprattutto di stirpe, è il segno di quanto profonda sia la crisi continentale, e in essa soprattutto del progetto europeo. Nulla è scritto aprioristicamente e niente è detto una volta per sempre. Tuttavia la presenza di un pericoloso crinale politico, a partire dalla vecchia Europa centrale, pare oramai un fatto con il quale si deve fare i conti, piaccia o meno. L’alternativa è il precipitarvi dentro, tra insipienze e incoscienze accomunate da una colpevole indifferenza, fatta passare per tolleranza verso un fenomeno che passeggero non è né lo sarà mai, quanto meno perdurando l’attuale stato di cose.
Claudio Vercelli
(20 marzo 2016)