Periscopio – Purim
Da millenni, la festa di Purim sta a significare, per gli ebrei di tutto il mondo, sparsi nelle varie nazioni, essenzialmente due cose: da una parte, l’eterna esposizione al pericolo, e il perenne rischio che la situazione di fragilità e precarietà precipiti in una catastrofe, capace addirittura di portare all’annientamento dell’intero popolo d’Israele; dall’altra, allo stesso tempo, l’invito a non perdere mai la speranza, confidando nella possibilità che la fedeltà a se stessi e alla propria missione riesca a portare la salvezza. Perciò il significato della ricorrenza resterà eterno, valevole – come, a mio avviso, per tutto ciò che rappresenta l’essenza più profonda dello spirito dell’ebraismo – per tutti gli uomini: mai abbassare la guardia, mai disperare.
Ciò che non tutti sanno è che Purim non è solo il ricordo di uno scampato pericolo, ma va ricordata anche come uno dei tanti casi in cui la commemorazione, da parte degli ebrei, di una violenza subita nel passato è stata a sua volta usata come pretesto per nuove forme di repressione e persecuzione. É quanto si evince, per esempio, da una costituzione emanata, nel 408, dall’imperatore romano d’Oriente Teodosio II (Codice Teodosiano, 16.8.18, Codice Giustiniano 1.9.11), con la quale si fa divieto agli ebrei di approfittare della festa di Purim per effettuare un presunto rito che pareva rappresentare un oltraggio alla religione cristiana, ossia dare alle fiamme l’effige del perfido Amàn (colui che avrebbe architettato lo sterminio del popolo ebraico di Persia) crocifisso. L’immagine di Amàn in croce, secondo le autorità cristiane, avrebbe richiamato in realtà quella di Cristo, e l’usanza di bruciarla pubblicamente avrebbe tradito l’intenzione di recare, in modo obliquo e camuffato, un insulto alla santa immagine del Redentore, così da motivare l’intervento repressivo imperiale (che, a quanto pare, avrebbe portato a forme di censura verso tutte le celebrazioni della festività, anche al di là della raffigurazione di Amàn in croce).
É vero quello che si asserisce nella legge, ossia che alcuni ebrei avrebbero usato dare alle fiamme l’immagine di Amàn crocifisso durante i festeggiamenti di Purim (che, com’è noto, erano e sono caratterizzati da un sentimento di liberazione e trasgressione, con la licenza di bere vino fino a non più distinguere “il maledetto Amàn” dal “benedetto Mordechai”)? Se non si può escludere che ciò, talvolta, abbia potuto accadere, quel che appare assolutamente inverosimile (come notato da Alfredo Mordechai Rabello, massimo conoscitore vivente della legislazione romana “de Iudaeis”) è che tale comportamento abbia potuto essere diffuso e condotto in aperto spirito polemico anticristiano, in un’epoca in cui gli ebrei venivano fatti oggetto di una sistematica politica repressiva e discriminatoria da parte del sistema teocratico, che li sottoponeva a restrizioni e vessazioni di ogni genere, attraverso una molteplicità di misure interdittive di vario tenore, spesso emanate dalle autorità secolari dietro precise direttive ecclesiastiche. Per un ebreo, in quei tempi (e anche dopo, com’è noto), dare la croce alle fiamme sarebbe stato certamente un gesto suicida. Ma l’idea che i perfidi ebrei lo facessero doveva certamente apparire suggestiva e popolare (al pari della convinzione che avessero, tutti insieme, ucciso Gesù, o delle leggende nere, successivamente divulgate, che impastassero il pane azzimo col sangue dei bambini cristiani, che friggessero le ostie ecc. ecc.), molto adatta a giustificare una nuova legge limitativa della libertà di culto ebraico. Perché l’impero romano non volle mai creare un vero e proprio ‘reato di ebraismo’, proibendo tout court la professione del culto israelita (soluzione improponibile sul piano teologico, in quanto avrebbe fatto venir meno la preziosa funzione dell’ebreo reietto e infelice, “testimone vivente”, come disse Agostino, del suo errore), ma preferì impegnarsi a elaborare tante diverse e fantasiose misure limitative e persecutorie: come questa di Teodosio, volta a criminalizzare gli innocenti festeggiamenti di Purim.
L’insegnamento di questa vicenda, a mio avviso, è che la memoria del male, come parte integrante dell’identità ebraica, è essa stessa oggetto della malevolenza antisemita, ed è perciò sempre molteplice e stratificata, come molteplice e stratificato è il male che essa ricorda. Nel ricordare la minaccia di Amàn, bisogna anche ricordare tutti gli altri Amàn – come ieri Teodosio, e oggi gli ‘asserzionisti-negazionisti’ di ogni risma – che, nella storia, hanno puntato il dito contro il popolo d’Israele, colpendone la memoria per colpirne l’identità.
Francesco Lucrezi, storico
(23 marzo 2015)