Venezia – I 500 anni del Ghetto Una storia di carta e di vetro
È un rincorrersi di ricordi, a Cannaregio, da un lato all’altro del calle dove si specchiano l’una nell’altra le vetrine di Enzo Aboaf e di Diego Baruch Fusetti. A pochi passi dal Campo di Ghetto Nuovo “La stamperia del Ghetto” è ora un locale luminoso, dominato dalle immagini di Lele Luzzati appese ovunque e dalla vecchia pressa, non più in uso da anni. “Ne sono passati quasi venti da quando abbiamo iniziato questa attività, ci conoscono in tutto il mondo… ma è tutto cambiato: una volta c’erano le crociere che per noi erano importantissime, a ogni arrivo frotte di stranieri, americani soprattutto, venivano subito da me e compravano di tutto. Ora in pratica sono le stampe di Luzzati che mi garantiscono la sopravvivenza”. Eppure il negozio nasconde tesori, stampe antiche di grande pregio, da sempre la grande passione di Enzo Aboaf, i cui aneddoti sono storia anche della fatica di una comunità, che è contemporaneamente viva e vitale e svuotata da un drammatico calo demografico. “Ero ancora ragazzino, avrò avuto dodici, forse quattordici anni, e in pratica sono andato a bottega, per guadagnare qualche soldo davo una mano alla famiglia Cesana, che aveva una grande galleria… è da lì che mi è venuta la passione per le stampe antiche. Alcune non le vendo proprio, e non solo perché non ci sono più gli acquirenti!” Apre con un sorriso fiero le grandi cassettiere, mostrando immagini a volte sbiadite che mostrano la traccia degli anni, e alterna il racconto della ristrutturazione del locale – prima di essere completamente recuperato è stato un bet hamidrash, per poi diventare un deposito, e infine magazzino della comunità – alle storie. “Questa non la sa neanche mia moglie ma mi ricordo ancora benissimo di quell’ashkenazita appena venuta giù dalla nave che voleva a tutti i costi comprare un Mosè che veniva giù dal Sinai che avevo messo in vetrina, sicuro di non venderlo. Era caro, molto, l’avevo preso da un antiquario di Padova proprio perché mi piaceva, e arriva questa che mi chiede quanto voglio. Cerco di scoraggiarla, e lei mi tira fuori la carta di credito… cosa potevo fare? Siamo andati avanti un pezzo, io continuavo a riappendere la stampa e lei a farmela tirare giù. Alla fine le ho detto che una cifra così me la poteva pagare solo in contanti, ero sicuro di essermela cavata. E lei cosa ha fatto, invece? È andata qui dietro e si è tolta una di quelle cinture che hanno gli americani in gita qui, e ha tirato fuori un rotolo di banconote. Ah, ma era bella, quella stampa… e poi in ghetto c’era tanta gente, si lavorava bene. Ora invece non ci sono più i negozi, le macellerie, gli stracciaroli”.
Il ghetto era vivo, pieno di persone, di attività. “Era tutto bello, il ghetto di una volta”. Non sono molto differenti le considerazioni di Annamaria Cesana, che quasi esattamente di fronte alla Stamperia del Ghetto gestisce insieme a suo marito Arte Ebraica, negozio passato di mano da una generazione all’altra. Recuperando dal retrobottega un oggetto molto amato racconta: “I miei suoceri erano abilissimi con le mani. Erano ottimi artigiani”. Sono esposti – ma assolutamente non in vendita – i mosaici opera di Marco Fusetti, che aver imparato da solo grazie soprattutto all’aiuto di amici che invece li facevano di mestiere. Altro motivo di fierezza, che però la signora Fusetti va a recuperare nel retrobottega, è un pupazzo fatto di panno lenci, che rappresenta un piccolo rabbino barbuto. “Li faceva mia suocera, Amalia Mariani, e avevamo tutta una serie di rabbini con i vari oggetti rituali, che avevano un gran successo. In effetti è da lì che si sono ispirati quelli che adesso fanno i cosiddetti ‘rabbinetti di vetro’. Se li erano studiati per bene, questi pupazzi, e ora li vendiamo anche noi”. Insieme a mille oggetti dei materiali più svariati, dal vetro alla filigrana d’argento.
Ma motivo di fierezza è soprattutto l’ultima creazione di una famiglia che ha l’artigianato nel sangue: “Per il cinquecentenario del Ghetto mio marito ha disegnato e prodotto delle medaglie, che abbiamo studiato in tutti i dettagli. Quella di bronzo, la più grande, rappresenta il Campo del Ghetto visto dall’alto, mentre le più piccole, che abbiamo in argento, riportano le facciate delle cinque scole”.
Ada Treves, Pagine Ebraiche, Marzo 2016
(27 marzo 2016)