Setirot – La storia di tutti
In certi ambienti, oggigiorno, va di moda – per così dire – “contrapporre” in qualche misura gli ebrei morti e gli ebrei vivi. Quasi che studiare e documentare il nostro passato con opere accademiche o museali – e in questo investire intelligenze, fatica e denari – equivalesse a sottrarre risorse alla vita reale dell’ebraismo italiano, così impoverendolo. Io credo che il lavoro di Donatella Calabi e le celebrazioni presenti e future per i 500 anni del Ghetto di Venezia siano la dimostrazione del contrario. Sono linfa vitale che va colta e sfruttata al massimo.
Questa è una storia che ci riguarda tutti. Se posso permettermi un piccolo inciso personale… grande è stata la commozione quando in una bella recensione a questo libro Sergio Luzzatto ha ricordato un disegno in sezione, datato 1778, di una casa in Campo di Ghetto Novo la cui proprietaria era Giuditta Alpron e dove, tra gli altri, abitavano i fratelli Valenzin. Bene, mia nonna paterna era una Valenzin e sua madre una Alpron, quella casa in Ghetto a noi Jesurum ha portato bene. Per non parlare, più avanti nel tempo, di quelle calli intorno alla Ca’ d’Oro e a palazzo Fontana che Calabi definisce una sorta di “isola ebraica”. E la mia famiglia materna Sonino Luzzatto Ravà proprio a San Felice mi ha accolto e coccolato fin da bambino.
È una storia che ci riguarda tutti, e che nessuno può rimpiangere perché, comunque, fatta di umiliazioni, segregazione e vessazioni. Un luogo fisico e mentale di soprusi, dunque, che a fasi alterne è stato anche fondamentale laboratorio di inclusione e infine, nella contemporaneità, straordinario punto di incontro tra ebrei, cittadinanza e mondo. L’Europa avrebbe parecchi spunti da cogliere dalla politica di quella Serenissima che – come poi Anversa, Siviglia o Amsterdam – considerava in ogni caso gli ebrei interlocutori e che in nome dello scambio accoglieva, controllandole, diverse minoranze. Un controllo – scrive Donatella Calabi – più o meno severo che serviva a scongiurare conflitti tra persone che avevano differenti abitudini, comportamenti, lingue. Le diverse “nationi” consce di sé. Con la contraddizione, a modo suo straordinaria, di mura e spessi cancelli che si chiudono la sera in nome dell’intolleranza e possono divenire sinonimo di autodifesa e autoconservazione. Una contraddizione forte e simbolica, quella del nostro Ghetto, luogo dell’anima dove preservazione di sé vuol dire sia contatto e scambio all’interno della minoranza (ebrei provenienti da Spagna, Centro Europa, Medio Oriente) sia intima contiguità con la maggioranza segregante.
Né naturalizzati né sudditi, una tappa da analizzare – credo – riguardo alle migrazioni odierne. Il nostro Ghetto dovrebbe, deve, essere un luogo di memoria essenziale perché fornisce spunti efficaci sui fenomeni migratori senza i quali si alimenta la tensione e il pregiudizio razziale.
Noi chiamiamo ghetto l’oppressione di ogni individuo vessato da reclusioni e discriminazioni fisiche e mentali, guerre, fame, terrorismi, campi profughi, banlieue. Ma l’immergerci globalizzante in flussi migratori, identità complesse, tentazioni neo-razziste rischia di spingere verso la costruzione di nuovi muri per liberarsi dell’Altro oppure per tutelare il proprio Io. Mentre noi onoriamo qui il passato di chi ha rifiutato di uniformarsi, di chi ha mantenuto la sua identità e ha saputo essere minoranza.
E allora – come mi è già capitato di scrivere – proprio come il vecchio Melchisedech che Rilke racconta volesse abitare nella costruzione di volta in volta più alta del Ghetto, non ci resta che salire e salire, per cercare di vedere al di là, oltre. Scrive Rilke: “Il vecchio continuava a ergersi fiero nella persona e poi a prostrarsi al suolo. E la folla, in basso, aumentava, e non distoglieva lo sguardo da lui: aveva veduto il mare oppure l’Eterno nella sua gloria?”. Oppure, ci chiediamo noi, aveva visto anche la libertà?
Stefano Jesurum, giornalista
(31 marzo 2016)