Qui Torino – Il vero volto dello Stato islamico

IMG-20160412-WA0007Maurizio Molinari e Massimo Gramellini, i numeri uno e due del quotidiano La Stampa, a confronto sul tema protagonista da tempo delle cronache mondiali: l’integralismo islamico e il fenomeno della Jihad. Teatro dell’incontro, voluto dall’associazione Cento per Cento Lettori, il Circolo dei lettori di Torino mentre ad essere al centro dell’attenzione l’ultimo libro di Molinari, Jihad. Guerra all’Occidente (Rizzoli 2015). Spunti, domande, questioni, sono quelli che Gramellini sottopone al suo direttore per far emergere le varie sfaccettature di un tema complesso e in perpetuo cambiamento come quello della Jihad. Il dialogo ha inizio sulla definizione stessa di terrorista, caricata, nell’immaginario collettivo, in modo poco aderente alla realtà e ancorata ad una visione anacronistica. I terroristi sono comunemente associati a una specifica condizione sociale: la povertà. I dati invece parlano di persone provenienti dal ceto medio. Il mito va sfatato per cominciare a pensare ai terroristi come al prodotto di una ideologia fondamentalista, estrema e violenta.
Cosa li spinge a far parte di un movimento come l’Isis? L’obiettivo è riportare l’Islam alle gloriose origini, e questo processo a ritroso è possibile solo con un’azione violenta che permetta al Califfato di avere pieno controllo sul mondo islamico prima e sugli ‘infedeli’ poi.
Perché ci colpiscono se la partita sembra essere, almeno in una prima fase, tutta interna al loro mondo? Le motivazioni sono principalmente due, spiega Molinari. In primo luogo c’è la necessità impellente di reclutare nuovi adepti tra i tredici milioni di mussulmani che risiedono tra la Germania e l’Atlantico. Il califfato vuole estendere il contagio. Oltre al reclutamento, c’è l’importanza di autolegittimarsi: seminare terrore e morti in Europa non è altro che una testimonianza tangibile del potere dell’Isis all’interno del mondo arabo.
Come si può identificare l’Isis? Si può parlare di Stato? Non è uno Stato, si tratta di un’ideologia di estremo fondamentalismo. Si tratta di clan che si originano da gruppi familiari. Abbiamo a che fare con un nuovo tipo di nemico, lontano dalle concezioni del XX secolo. La stagione attuale è contraddistinta dalla fine degli stati o quanto meno della loro implosione, come nei casi di Siria, Iraq e Libia. L’idea di stato è di per sé prodotto del mondo Occidentale. All’imposizione di tale struttura, ora si torna alle tribù. Per il futuro più prossimo si intravede un possibile effetto domino che rischia di minacciare altri stati: “penso la Tunisia e temo l’Egitto”, afferma Molinari. Il caso Regeni non fa altro che mettere in evidenza la debolezza del governo egiziano in mano ad Al Sisi. “In ogni vicenda”, spiega ancora il direttore, “c’è sempre un significato e un significante”. C’è una parte profonda, nascosta dietro all’apparenza. Il significante è un drammatico fatto di cronaca e uno stato che si rifiuta di collaborare. Il significato è uno stato in balia di scontri tra bande di potere. “L’Egitto rischia di essere sull’orlo di un precipizio e più a lungo la vicenda sarà avvolta nel silenzio più Al Sisi ne uscirà debole”. Si tratta un’altra volta di un problema di deterrenza.
Qual è il ruolo di Israele oggi? Molinari parla di due cambiamenti di fondo: da una parte i sunniti si stanno avvicinando ad Israele perché chiusi tra jihadisti e Iran. Dall’altra il timore per l’Isis, che potrebbe riavvicinare israeliani e palestinesi, dal momento in cui il sogno dei palestinesi è quello di avere uno Stato ma l’Isis si pone contro tale creazione.
Si può parlare di responsabilità dell’Occidente? Più che di responsabilità bisogna parlare di errori strategici a livello geopolitico che sono costati in termini di deterrenza, cioè l’impressione di detenere un potere forte. “Un errore determinante per la nascita e per la radicalizzazione dell’Isis è stato il ritiro nel 2011 di tutte le truppe Usa dall’Iraq”, spiega l’autore. Solo un anno dopo nasce l’Isis nel nord del paese.
Dall’Occidente ci si cala più concretamente nel caso italiano. Temiamo qualcosa? Siamo un territorio a rischio attentati? Molinari fa riferimento ai testi prodotti dal Califfato: “sono inequivocabili e contengono una visione apocalittica che vede la vittoria dell’Isis non solo sulle terre dell’Islam, ma anche sugli infedeli, di cui Roma è il simbolo”. Il mezzo tutt’ora più efficace sembra essere l’azione dei servizi segreti italiani, con il valore aggiunto delle forze dell’ordine e della loro esperienza di lotta alla mafia. Molinari parla di affinità tra Isis e Mafia, rispetto ad esempio alla suddivisione in clan.
È cambiato il nemico ed è cambiato il tipo di guerra: serve per tanto una nuova dottrina di sicurezza vista la nuova minaccia. Una soluzione potrebbe essere quella di creare un esercito comune europeo? “Il vero problema dell’Europa”, sostiene, “è quello di essersi dimenticata di avere frontiere esterne, e il fatto di occuparsi solo delle interne può generare fenomeni di implosione”. Gli interessi sono ancora una volta statali e non comunitari. L’Occidente ha le sue responsabilità non solo in termini di azioni, ma anche , e soprattutto, in termini di non- azioni. Ed è in queste trame dell’immobilismo che il nemico tesse la sua tela.

Alice Fubini

(13 aprile 2016)