Ronit Elkabetz (1964-2016)

efespfive108131“Non devo niente a nessuno. Nessuno. Ho delle cose da vivere: il mio corpo e il mio cuore sono degli strumenti. Ho una conoscenza da acquisire e non posso fermarmi”. Ronit Elkabetz, venuta a mancare questa mattina all’età di 51 anni, descriveva così qualche anno fa in un’intervista al quotidiano francese Libération la sua carriera artistica di attrice e regista, che ha portato sul grande schermo i tanti diversi spaccati della società israeliana, con uno sguardo sempre profondo, mai banale. All’annuncio della sua scomparsa, seguita a una lunga lotta contro la malattia, diffuso dal quotidiano Haaretz, l’ex presidente Shimon Peres ha definito Elkabetz, che si divideva tra Israele e la Francia, come “una straordinaria ambasciatrice culturale dello Stato d’Israele, sapendolo rappresentare insieme ai suoi cittadini sulle diverse scene estere con estrema fierezza, creatività ed eleganza”. Ronit, ha continuato Peres, “era una grande donna, coniugava il suo talento di scrittrice e la sua abilità di attrice in uno stile particolare e unico”. Uno stile elogiato anche da Daniela Gross su Pagine Ebraiche, dove ricordava che “per il suo magnetismo è stata paragonata dal regista Pascal Elbè, che l’ha diretta, ad Anna Magnani. È misteriosa – continuava Gross – esotica, estrema, ricca di una potenza drammatica e immaginativa inconfondibile. Come dice il critico israeliano Uri Klein: la ami o la odi, ma non la puoi ignorare”.
Nata nel 1964 a Beersheva in una famiglia ebraica marocchina originaria di Essaouira, Elkabetz era figlia di una parrucchiera e di un impiegato delle poste, la più grande di quattro fratelli. Le sue origini sono fortemente presenti nei suoi film da regista, in particolare nella trilogia semi autobiografica realizzata insieme al fratello Shlomi composta da To take a wife (2004), Shivah-Seven Days (2007) e Gett – The Trial of Viviane Amsalem (2014), che racconta le complesse vicende di una famiglia ebraica marocchina alle prese con matrimoni in bilico, rapporti complicati con i genitori, lutti, divorzi, in cui le tensioni famigliari si intrecciano con quelle politiche del paese. Vincitrice di tre premi Ophir e presenza carismatica sui red carpet dei maggiori festival internazionali, da Cannes a Gerusalemme, da Venezia a Locarno, ma anche i Golden Globe e gli Oscar, la carriera di Ronit è iniziata nel 1990 con la pellicola The Intended. Alla fine del suo servizio militare, durante il quale faceva il punto sulle condizioni meteo per i piloti dell’aviazione prima del loro decollo, aveva fatto qualche provino per alcune pubblicità, è stata esortata un po’ per azzardo a partecipare alle selezioni per un lungometraggio. Non aveva mai studiato recitazione, ha raccontato nel 2009 a Libération, eppure “è come se avessi ricevuto una chiamata, dal primo istante ho capito di sentirmi a casa. Sono andata via la sera tardi e sotto la pioggia, mi sembrava di camminare a dieci centimetri da terra, più niente aveva importanza”. Quella sera, insonne cronica, Ronit ha dormito profondamente, fino alla mattina alle 7. “Mazal tov, il ruolo è tuo!”, annunciava la voce al telefono. “Ed ecco – ha ricordato l’attrice – fin dall’inizio sapevo esattamente quello che volevo fare e come farlo”.
Astro nascente del cinema israeliano, a soli tre anni dalla vittoria del suo primo premio Ophir nel 1994 per Sh’Chur, di Shmuel Hasfari, Ronit ha compiuto quindi una scelta rivoluzionaria, e nel 1997 si è trasferita in Francia. Nonostante sua madre parlasse francese e arabo, suo padre aveva voluto che in famiglia si comunicasse esclusivamente in ebraico, e quindi quando è arrivata a Parigi Elkabetz non conosceva né la lingua né qualcuno che la potesse aiutare. Ciononostante è riuscita a lavorare con Ariane Mnouchkine nel suo avanguardistico Théâtre du Soleil, e negli anni successivi a recitare in vari film tra cui La Fille du RER di André Téchiné nel 2009 al fianco di Catherine Deneuve e in Cendres et sang di Fanny Ardant nel 2010. Quell’anno, sebbene si fosse definita una
“innamorata eterna”, innamorata più dell’amore che degli uomini che stavano al suo fianco, ha sposato l’architetto Avner Yasharon. La sua vita ha cominciato dunque a dividersi tra Israele, dove si è stabilita a Jaffo, e Parigi, dove però non ha mai voluto prendere una casa vera e propria perché amava sentirvisi una “visitatrice ammirata”. Del suo paese natale amava “la vibrazione, l’urgenza, il ‘troppo pieno’ di vita e di morte”, mentre della Ville Lumière apprezzava “i cieli coperti, le chiacchiere nei caffè, le strade antiche”.
Nel frattempo, dal 2004 Elkabetz ha deciso di posizionarsi anche dietro la cinepresa. “Non mi annoio mai. La creazione non mi stanca, al contrario. Non sono mai in attesa. Non appena ho un secondo di solitudine, scrivo”, aveva spiegato. E così è nata la sua trilogia, di cui l’ultimo capitolo, Ghett, ha ottenuto il primo premio al Jerusalem Film Festival nel 2014, è stato candidato all’Oscar e ai Golden Globe come miglior film straniero, ed è stato presentato a Cannes e Toronto. È la storia di Vivian, donna israeliana che da anni lotta per ottenere il divorzio, il “ghett” appunto. Il marito da cui è separata anni prima si ostina a negarglielo mentre i giudici abusano di burocrazia, ambiguità e ritardi. Un’impasse paradossale “che Vivian-Ronit Elkabetz narra con rigore e ritmi serrati mostrando uno dei lati forse meno conosciuti della società israeliana, in cui matrimonio e divorzio sono istituzioni religiose, non civili, e spetta all’uomo concedere il ghett”, scriveva Daniela Gross. Si tratta secondo lei non solo del “commovente ritratto psicologico di una donna che cerca, con tutte le forze, di non farsi travolgere dalla crudeltà del marito, dai formalismi, dalle incomprensioni e dai ritardi dei giudici e di riprendersi la propria vita”, ma anche della proposta di un tema è di stretta attualità. “Neanche a farlo apposta – ricordava infatti – mentre Ghett veniva presentato al Festival di Cannes, sulla stampa francese montava lo scandalo, purtroppo reale, del ghett in Francia. La vicenda, che ha scosso l’ebraismo francese e chiamato direttamente in causa il rabbinato, ha rivelato come molte donne in cambio del ghett subivano pesanti richieste di denaro – dai venti ai centomila euro – da parte di mariti recalcitranti. Spesso, come dimostrato da testimonianze e registrazioni, le richieste venivano avvallate dai rabbini. Chi non voleva o non poteva pagare finiva per ritrovarsi in una sorta di limbo, stigmatizzata dalla comunità e impossibilitata a rifarsi una vita. Una trappola dolorosa troppo spesso sottaciuta, che – concludeva – nel volto magnetico di Ronit Elkabetz trova un’interprete e una portavoce d’eccezione”.

Francesca Matalon twitter @fmatalonmoked

(19 aprile 2016)