Un patto sempre vivo
“Bekol Dor VaDor Haiav Adam Lirot etAtzmò, Keillù U Iatzà MiMitzraim”. “In ogni generazione ognuno deve vedersi come se egli stesso fosse uscito dall’Egitto”.
Ogni generazione – leggiamo nell’Haggadah durante il Seder di Pesach – è dunque tenuta a considerarsi come personalmente uscita dall’Egitto: è infatti con l’uscita dall’Egitto che abbiamo avuto il Matan Torah, e poiché i miracoli non accadono spesso, la Torah ci ricorda il dovere del ricordo (mangerai matzah celebrando Pesach “affinché tu ricordi il giorno in cui uscisti dall’Egitto ogni giorno della tua vita”, Devarim16,3). Così, il precetto del ripercorrere il ricordo con la narrazione dell’Haggadah permette ad ognuno di noi di ripensare alla propria, personale uscita dal proprio, singolo Egitto.
Ognuno, dunque, foglio bianco davanti negli esercizi di Talmud Torah del venerdì pomeriggio a casa, già lavati e vestiti con gli abiti belli aspettando la sposa Shabbat, prova a rappresentare la propria uscita dall’Egitto.
I fratelli criticano il piccolo (cinque anni) perché il suo Yam Suf ha i colori dell’arcobaleno, e quando mai, obietta il grande (nove anni), si è visto un mare colorato? Sì, risponde il medio (sette anni), ma anche noi lo chiamiamo Mar Rosso, quindi era colorato. Ma il suo nome vero sarebbe mare dei giunchi, ci ricorda Rashi, e come si spiega?
Proviamo a parlare dei problemi linguistici e di diversi errori commessi nella traduzione greca dei Settanta nel terzo secolo dell’Era Corrente, che a questo proposito parla di Eρυθρὰ Θάλασσα, eruthrà thàlassa, mare rosso, probabilmente reso colorato da un batterio. In realtà non sappiamo bene dove abbiano attraversato il mare, ma è davvero questo l’aspetto più importante, se fosse davvero il mare con acqua sufficiente a ricoprire i nemici, come ci dice la Torah, o il lago Sirbonis, un acquitrino melmoso con canneti probabilmente vicino a Suez, come vorrebbero alcune interpretazioni basate sugli antichi geografi e corroborate dalla visione dei carri egizi impantanati nel fango con l’arrivo dell’alta marea (Shemot 14,25), dimenticando però la successiva descrizione delle onde che si richiudono sugli egizi dopo aver formato “come un muro” per far passare Am Israel all’asciutto (Shemot 14,22)?
Non conta, piuttosto, il miracolo attuato da D-o per liberare il suo popolo? Tre piccole fronti si corrugano. Proviamo a leggere la successiva Shirat HaYam (anche se l’abbiamo già letta poco tempo fa, obietta il grande): celebra il Signore che “stritola il nemico” salvando il popolo con l’annegamento degli egiziani nel mare, con onde alte come diga ed i nemici che si “inabissarono come piombo in acque potenti” (Shemot 15, 6-11). Lo ha fatto Hashem, conferma il secondo fratello, sempre molto categorico sulla giustizia divina, e quindi poteva fare come voleva. Questo vuol dire credere nel Signore, indipendentemente dai mezzi usati per operare, come causa prima di tutto, no?
Le rughe del piccolo si distendono, gli occhi illuminati: allora il mio mare può essere colorato perché magari Hashem ha fatto il miracolo colorandolo? Questo non saprei, ma se l’uscita dal tuo Egitto ha il mare colorato, forse sì. Anche il fratello grande pensa, poi si rasserena, ha trovato la soluzione in grado di soddisfare tutti: certo, è come nella Parashat Noach (una delle nostre preferite) dove il patto della riconciliazione tra l’uomo e D-o è siglato, dopo il diluvio, dalla comparsa dell’arco(baleno) tra le nubi (keshti, il mio arco: Bereshit 9,13). E se l’arcobaleno è colorato, forse anche le acque del Yam Suf del piccolo possono esserlo, a ricordare che quel patto è sempre vivo e che Kadosh Baruch Hu ci guida di continuo (tanto lui non dorme mai, conferma il secondo).
Tutto chiarito dunque, ed intanto si è fatta l’ora, andiamo ad accendere le nerot Shabbat.
Sara Valentina Di Palma
(21 aprile 2016)