Liberazione o amputazione?
Sulle manifestazioni del 25 aprile, data altrimenti fondamentale nel calendario non solo italiano ma anche europeo (indipendentemente dal fatto che non sia festeggiata la ricorrenza), ci sarebbe poco da dire se non che si stanno rivelando, sempre più spesso, una sconfitta dell’intelligenza. A parte gli stanchi ritualismi, che si trascinano di anno in anno, creando e rafforzando una cortina di indifferenza in quanti si escludono da sé dall’esecuzione di un esercizio privo di immedesimazione, negli ultimi tempi si sono sommate quelle tensioni che ci sono ben note. Nella migliore delle ipotesi la presenza della componente ebraica, quand’essa non si “sciolga” individualmente nel flusso delle iniziative (cortei, raduni, commemorazioni e così via) viene tollerata. In altri casi, e gli eventi ripetutisi negli anni trascorsi, soprattutto a Milano ma non solo stanno lì a dircelo, il rifiuto si fa netto. Quanto meno da una parte dei partecipanti, che “attualizzano” il messaggio resistenziale sovrapponendolo alla “lotta di liberazione della Palestina”. Va da sé che se queste sono le premesse, la presenza delle bandiere e delle insegne della Brigata ebraica siano volutamente fraintese (sia concesso il gioco di parole): esse rimanderebbero all’aborrita “entità sionista” (così si definisce Israele, sempre e comunque), di cui sarebbero diretta ed immediata espressione, senza soluzione di continuità. Ed il sionismo è, in un gioco di tanto facili quanto deliranti equazioni, il “nuovo nazismo”. Non solo Israele sconterebbe la sua natura di entità storicamente abusiva ma, nella sua natura di esperimento coloniale ai danni della collettività araba, di fatto sarebbe l’artefice di nuove pratiche di oppressione se non di “sterminio”, ancorché abilmente occultate o comunque contraffatte sotto le false spoglie di una occupazione militare, con il complice assenso della comunità internazionale. Per i sostenitori di questa vera e propria “visione del mondo” – e non solo del conflitto israelo-palestinese, che ne costituisce oramai quasi un elemento di corredo, un pretestuoso richiamo – la coerenza del proprio delirio è pressoché totale. Il delirio, sia ben chiaro, è paranoico ma sempre e comunque lineare e ineccepibile nei suoi assunti. La follia politica non è mai stupidità o scempiaggine, ma calcolo e determinazione. In questo caso, l’equazione tra antisionismo e antisemitismo funziona molto bene, ed è un vero e proprio carburante ideologico che sta alimentando una robusta parte della cosiddetta “sinistra radicale” ma anche, in immediato riflesso, chi, pur non ritenendosi “radicale”, ne subisce i velenosi influssi. A puntellare tale costruzione paranoide vi è poi il silenzioso convincimento che il radicalismo jihadista ed islamista potrà anche essere “un po’ eccessivo” nelle sue manifestazioni ma, in fondo, qualche ragione pure l’avrà. L’idea che costituisca la rivalsa degli oppressi e che, come tale, sia in sintonia con una certa idea di “liberazione”, è un sentire più diffuso di quanto non si possa pensare o volere credere. In realtà rappresenta il grado zero della riflessione politica. Ma chi “riflette” in tale modo non ha nessun interesse per ciò che chiamiamo politica, semmai essendo interessato solo ad ostili manifestazioni di identitarismo, dove la ricerca del “nemico”, inteso come capro espiatorio e valvola di sfogo, è una ragione più che sufficienti per dare corso alla propria esagitazione. L’odio, in questo come in altri casi, è un valido legame di reciprocità. Nell’avvilente panorama che da qualche anno va in tale modo configurandosi, si aggiungano un paio di considerazioni. La prima di esse demanda al fatto che l’Associazione nazionale partigiani d’Italia, nel vero e proprio cambio generazionale che sta conoscendo, malgrado gli sforzi di una parte dell’attuale gruppo dirigente, è sempre più spesso scissa al suo interno tra due anime, quella istituzionale e quella “radicale”. Sul piano territoriale la dinamica si misura oramai con grande frequenza. Non è improbabile che la seconda, la quale gioca sull’attualizzazione di alcune tematiche di fondo, in tale modo contrapponendosi alla cristallizzazione celebrativa che spesso si accompagna all’azione della prima, cerchi di prevaricare nel momento in cui le condizioni date dovessero risultarle favorevoli. Non è una realtà unitaria, sia ben chiaro, ma un circuito di malumori che, tuttavia, potrebbero organizzarsi come piattaforma politica. Fino ad oggi non lo hanno ancora fatto, esprimendosi semmai attraverso singole manifestazioni di ostilità. L’avversione nei confronti di Israele e, in immediato riflesso, di ciò che rimanda al “sionismo”, è un buon collante ideologico, in mancanza di un progetto che non sia la semplice contrapposizione “antagonista” allo stato delle cose. La seconda considerazione, tanto più nei giorni di Pesach, è che ciò che è stato non è per nulla detto che debba ancora andare bene per i tempi a venire. Fuori da qualsiasi eufemismo, non si può accettare la condizione di “tollerati”, si tratti di un corteo piuttosto che di altro. La stessa nozione di cittadinanza repubblicana di fatto abroga la tolleranza, intesa come “graziosa” concessione da parte di terzi, per istituire la parità nella diversità. La liberazione dall’oppressione è fatto troppo importante, nella maturazione di individui e collettività, per essere vissuta all’interno di fragili equilibrismi dove la flagranza e la veracità di una festa si trasforma in un obbligato gioco delle parti, da dove comunque l’ostilità trasuda come un vero e proprio rio carsico che, dopo essere rimasto celato allo sguardo altrui, trova poi il modo di emergere in maniera dirompente non appena se ne presenti l’occasione. Non si tratta di fare a meno del 25 aprile (sarebbe al limite di un’eresia autolesionista) ma di iniziare a ripensarlo. I tempi ce lo impongo, affinché si possa dire che non sono trascorsi invano. Da come sapremo farlo deriverà il senso rinnovato che attribuiamo al nesso indissolubile tra liberazione ed emancipazione. In fondo, c’è sempre un deserto da attraversare. Bisogna avere buone guide. Ma lo si può fare.
Claudio Vercelli
(25 aprile 2016)