Meis, la direttrice Simonetta Della Seta: “Ferrara, polo vivo di cultura ebraica”
“Il lavoro è collettivo, il risultato è collettivo. Noi giornalisti lo sappiamo”. Studiosa, diplomatica e grande protagonista delle politiche culturali, da brevi momenti alla guida del progetto più ambizioso dell’ebraismo italiano, il Museo nazionale dell’Ebraismo italiano e della Shoah di Ferrara, Simonetta Della Seta non dimentica l’origine del suo impegno professionale, il clima della redazione e il gusto di ragionare assieme ai tanti colleghi che ha avuto la fortuna di incontrare nei giornali. La sua esperienza fra pagine e notizie conta, e il suo orgoglio professionale si quieta solo davanti all’affettuosa considerazione che qui a Pagine Ebraiche non siamo in genere inclini a intervistare i colleghi. Allora ammette di essere una giornalista tutta speciale, diciamo fuori dall’ordinario, e prima di fare le valige per Ferrara, di lanciarsi in una nuova, entusiasmante esperienza, torna a cercare energia nel suo grande bagaglio d’esperienze e di conoscenze, che ne hanno fatta un’esperta vera di Israele e d’Italia, di politica mediterranea e di politica culturale, di creazione e di comunicazione.
Ancora stordita, emozionata da questo nuovo incarico?
Certo, anche perché vorrei accostarmi a questa responsabilità enorme che mi è stata attribuita con tutta l’umiltà di cui sono capace. Vorrei ascoltare, elaborare, mettere a fuoco le speranze e le opportunità che ci attendono. E soprattutto voglio ringraziare i pionieri, tutti coloro che si sono impegnati in questi anni per far sì che il progetto di Ferrara prendesse effettivamente corpo e divenisse il baricentro e lo snodo delle politiche culturali che per la società italiana e internazionale fanno riferimento all’esperienza degli ebrei italiani. Vorrei entrare, insomma, in punta di piedi e avere sempre presente il lavoro svolto da altri in questi anni difficili, l’impegno di coloro che dagli inizi coma oggi hanno creduto nel progetto, la professionalità di tutti coloro che hanno offerto i primi contributi, la convinzione e la lungimiranza degli amministratori locali che hanno compreso come questa, che è una grande occasione per l’ebraismo italiano, costituisca anche una grande occasione per Ferrara. Per una città che grazie alle relazioni fra l’elemento ebraico e la società nel suo complesso è divenuta grande e ha offerto così tanto al mondo.
Troppo presto per chiederti come sarà il Museo, quando aprirà le sue porte?
Sì, raccontare un programma di lavoro è ancora prematuro.
Ma il lavoro sono le persone, sono le esperienze, sono le capacità di immaginare e di progettare. Di quelle possiamo parlare? Quale museo vorresti? Che cosa significa costruire un museo ebraico, oggi?
Costruire un museo ha assunto un significato molto diverso da quello che abbiamo ereditato dalla cultura dell’Ottocento e della prima metà del Novecento. Non credo abbia più senso immaginare una collezione d’oggetti estrapolati dalla loro funzione di vita. Esiste quindi il modello dei grandi musei, delle grandi collezioni che si sforzano di abbracciare gli oggetti preziosi di ogni epoca. Ed esiste un progetto differente, che cerca di risvegliare le emozioni offrendo un percorso, propone la conoscenza attraverso l’identificazione, ci porta vicini alle vicende, alle storie reali.
Un percorso lontano dalle meraviglie delle cose preziose?
Percorsi costruiti utilizzando le competenze e le tecnologie per colpire piuttosto l’animo delle persone, attenti al filo conduttore dei concetti, non solo al dipanarsi delle cronologie. Che rendano il nostro senso della dimensione del tempo, della cultura e dell’identità.
Costruire musei, in questi tempi di crisi identitaria e sociale, può essere un lavoro arrischiato.
Proprio per questo dobbiamo stare attenti a chiarire che un museo ebraico non può essere la cantina o la soffitta degli oggetti della grande famiglia ebraica italiana, il luogo di raccolta dei ricordi o la cassa funebre di un ebraismo che deve invece restare ben vivo. Ma la chiave per comprendere i grandi valori etici e morali dell’ebraismo.
Allora, l’ebraismo italiano non deve finire in una teca, come alcuni paventano?
Ma certo che no. È vero che alcuni musei ebraici, con i loro oggetti bellissimi in mostra, corrono il rischio di essere percepiti come l’obitorio dell’ebraismo. Ma credo che la vocazione di Ferrara dovrebbe essere tutt’altro. Per ammirare lo splendore dei Rimonim bisogna andare nelle sinagoghe dove devono restare in uso, noi abbiamo bisogno di costruire il luogo aperto agli ebrei e ai non ebrei dove si avvicinino i valori dell’ebraismo, se ne misuri la portata, la loro influenza incancellabile nella vita civile della società italiana. Dove si incontrino la vita e le vicende, spesso complesse e tormentate, di ebrei italiani che hanno un nome e un cognome, una famiglia, un itinerario lunghissimo alle spalle e un percorso altrettanto lungo davanti.
Un traguardo ambizioso…
Certo, anche perché da questo punto di vista è necessario rimboccarsi le maniche e cominciare il lavoro. Non possiamo intervenire su un museo già esistente da ripensare, dobbiamo immaginarne uno nuovo. La collezione permanente non credo dovrebbe essere la nostra prima preoccupazione. Per le grandi esposizioni conterà di più la nostra visione e la nostra capacità di tessere rapporti. Il dialogo con le comunità e le realtà ebraiche, sulla base dell’idea di non accumulare oggetti in magazzino, ma di segnare percorsi, di offrire la comprensione delle storie.
Esporre valori, idee, è molto più difficile che esporre oggetti…
Forse, ma, in fondo, non è questo il lavoro che gli ebrei italiani compiono ogni giorno, bene o male, da due millenni? Dobbiamo costruire il luogo dove questo lavoro prenda corpo e chiarezza.
E per dire cosa?
Per chiarire che il messaggio dell’ebraismo italiano sta nella sua capacità di conservare la propria identità dialogando contemporaneamente con la società e con le sue tante città.
Il rapporto con Ferrara, nella sua lunga identità comunale spesso profondamente intrecciata con le vicende ebraiche, la centralità ideale e anche geografica del centro emiliano si faranno elementi fondamentali del progetto…
Dovrà essere un centro vivo dentro una città viva. Un museo vivo nel luogo dove sta, e aperto all’Italia intera e al mondo perché questa è la vocazione degli ebrei italiani ed è la vocazione condivisa con il luogo che lo ospita. Un luogo che per la sua bellezza, per il suo fascino, per la sua storia e per la sua centralità anche geografica nella struttura italiana, è meta e progetto di tanti viaggiatori. Una città che conosce le arti e le idee, la musica, il teatro, il cinema Giorgio Albertini e sa quanto una combinazione delle forze e delle identità possa raggiungere.
Ferrara così è destinata ad assumere un ruolo centrale nel rapporto fra ebrei italiani e società italiana.
Ferrara è Europa e gli ebrei italiani sono europei, condividono il destino di essere luogo e testimoni di passaggi, di migrazioni, di intese, di dialoghi. Credo che le vicende degli ebrei italiani dovrebbero definire un messaggio di moderazione e di equilibrio, di capacità di mediare fra le culture senza rinunciare a nulla del proprio animo e delle proprie origini. Il dialogo, quello vero, non nasce da un’imposizione, ma rappresenta la nostra storia e la nostra vocazione.
Molte idee, molti progetti. Da dove cominciare?
Le idee non bastano. Serve anche il lavoro quotidiano. La messa a punto di una strategia per conquistare amici, sostenitori senza i quali nessun progetto può riuscire compiutamente. Lavorare per costruire un punto di incontro dove la cultura, che non manca, non solo si mostri, ma si produca. E dove la cultura emerga in diversi formati per essere alla portata di tutti e non solo degli addetti ai lavori.
Ancora un auspicio, prima di partire?
Di lavorare per tutti, ma soprattutto per i giovani e con i giovani. Gli esperti sono insostituibili, ma l’esperienza in Israele mi ha insegnato che non possiamo costruire nulla di solido se dimentichiamo le nuove generazioni.
Guido Vitale, Pagine Ebraiche Maggio 2016
Disegno di Giorgio Albertini