Prandelli, l’intervista con Pagine Ebraiche
“Amo la diversità, colpito da Israele”

Schermata 2016-05-09 alle 09.33.52Se c’è una qualità che proprio non manca al mister è la capacità di far sentire a suo agio l’interlocutore. L’intervista inizia infatti con un caloroso “Shalom” e con l’orgoglio della compagna, Novella, per le proprie origini ebraiche: “Ci tengo particolarmente. E Cesare si lascia coinvolgere, imparando molte cose”. Dove con Cesare si intende “il” Cesare nazionale. E cioè Prandelli, uomo immagine di un calcio pulito di cui si sente, mai come adesso, un gran bisogno. Tra poco tornerà in panchina: le sirene di radiomercato lo danno nuovamente in pista. E lui conferma. Si tratta adesso di capire come, dove e con quali obiettivi. Ma la strada è segnata. Troppo forte la nostalgia del campo. Nel frattempo è comunque piacevole godersi le tante belle cose della vita. Viaggiare. Rilassarsi. Sognare nuove mete. Come una casa a Tel Aviv. Una città che, dice l’ex ct azzurro, “ho amato a prima vista”.

Mister Prandelli, lei è alfiere di un certo modo di intendere lo sport: etica, fair play, messaggi profondi. C’è ancora spazio per questi valori nel nostro calcio?

Farne a meno vorrebbe dire ampliare la forbice che separa tifosi e calciatori, far scemare ulteriormente una passione che fatica ad accendersi in modo sano. La mia impressione è che, alla base di tutto, ci sia un gap comunicativo non di poco conto: per tutta la settimana tifosi e addetti ai lavori non hanno contatti. Due mondi distanti, che non si incontrano mai. È il momento di invertire il trend. Serve che tutti, nessuno escluso, si diano da fare. E guardo oltre il campo di gioco, molto oltre. Chi ha il privilegio di muoversi in questo mondo non può sottrarsi dal compito di essere protagonista della società in cui vive, e al tempo stesso deve sforzarsi di capirne le dinamiche, le sfide, le difficoltà che l’attraversano. Servono messaggi forti. Serve normalità.

Quello che si fa non è sufficiente?
Uno sforzo c’è, ma mi pare che non basti. Gli striscioni e le spillette contro il razzismo rappresentano ad esempio un fatto apprezzabile, ma tutto resta confinato a pochi istanti di attenzione mediatica. Bisogna lavorare in profondità, stimolare incontri e contatti continuativi, far sì che ciascun attore remi nella stessa direzione. Tifosi, calciatori, allenatori, dirigenti: ognuno, nel suo ruolo, può fare molto. Ma affinché si raggiungano dei risultati è fondamentale che le barriere cadano. Fisiche e mentali. E se questo vale per i club, a maggior ragione vale per la nazionale. La squadra di tutti.

Lo si è visto chiaramente nel suo mandato da commissario tecnico.
Sono orgoglioso di quel quadriennio. Del secondo posto all’Europeo, ma soprattutto dal fatto di aver riavvicinato la gente alla maglia azzurra. Ci siamo arrivati con i risultati, anche se l’eliminazione al Mondiale ha un po’ affossato quanto fatto in precedenza. Ma, ancora più importante, abbiamo aperto una strada e indicato un metodo. La nazionale non è e non potrà mai essere soltanto un insieme di atleti e dirigenti al loro seguito. La nazionale deve essere molto più. Rivendico di aver compiuto alcune scelte, in piena sintonia con i vertici federali. Aver giocato sul campo confiscato alla mafia a Rizziconi, in provincia di Reggio Calabria, ma anche aver portato l’intera squadra in visita ad Auschwitz-Birkenau. Un’esperienza che ha davvero lasciato il segno.

Lei ha detto: “È un posto dove chiunque dovrebbe andare”.
Fosse per me imporrei la visita ai lager nazisti a tutte le scuole d’Italia. Perché il razzismo si combatte prima di tutto con l’educazione dei giovani e con una lotta costante alla passività. Negli stadi invece c’è troppa inerzia, troppo disimpegno. E qui parlo soprattutto dei tifosi. Se qualche imbecille ulula all’indirizzo di un calciatore di colore, infatti, i primi ad intervenire devono essere i suoi vicini di posto. Magari con un applauso, con un gesto di segno opposto. Ma accade molto di rado. Per questo dico che società e tifosi devono parlarsi, mantenere un contatto diretto per stabilire una sinergia. Alla Fiorentina lo abbiamo fatto costantemente, dando un chiaro indirizzo ai nostri sostenitori: no al razzismo, no a ogni forma di violenza fisica. Mi pare che tutto sia andato nel migliore dei modi.

C’è qualche altro esempio virtuoso che ricorda con piacere?
Sì, in Israele. Tre anni fa ho avuto modo di conoscere una realtà davvero straordinaria – Il Roma Club Gerusalemme – e il suo impegno per far giocare assieme ragazzi ebrei, musulmani e cristiani. I risultati raggiunti in questi anni sono lo spot ideale di cosa dovrebbe essere lo sport e quale la sua funzione primaria. Uno dei volti più belli di un paese che mi ha contagiato per la sua freschezza, il suo dinamismo, la sua ricchezza di identità e culture. La diversità mi attrae, da sempre. E in Israele ho trovato il miglior terreno per soddisfare i miei interessi. Oltre a una gioventù incredibile, per cui provo grande ammirazione, che nonostante un presente difficile non rinuncia a costruire i propri sogni e il proprio futuro.

C’è una città in particolare che l’ha affascinata?
Tel Aviv, davvero speciale. Talvolta fantastico con Novella su dove ci piacerebbe comprare casa all’estero. Beh, devo ammettere che da quelle parti non mi dispiacerebbe proprio.

Adam Smulevich twitter @asmulevichmoked

Pagine Ebraiche maggio 2016

(9 maggio 2016)