Ghiur…

Alla vigilia di ogni competizione elettorale si riaffaccia con forza la questione del ghiùr, la conversione all’ebraismo, in particolare quella dei bambini di padre ebreo e di madre non ebrea. La questione del ghiur è un problema dell’ebraismo italiano, anche se non solo dell’ebraismo italiano. Ma il nostro, a differenza di altri paesi, è un ebraismo ormai ai minimi termini, e ogni crisi può esserci letale. La questione del ghiùr è stata affrontata troppo spesso da un’angolazione altamente influenzata dal vissuto personale, anzi, influenzata dai molteplici vissuti personali, sfociando spesso in una contrapposizione fortemente personalizzata fra singolo candidato gher e il singolo rabbino a cui è demandato di rappresentare e riconoscere al candidato l’identità ebraica. Questo incontro, che talora è stato un vero e proprio scontro, spesso si è risolto in una polemica improduttiva e distruttiva, a volte inficiata da logiche di schieramento e nelle quali si rischia di confondere le cause con gli effetti.
Un problema dell’ebraismo italiano è l’assimilazione, la perdita di un’ identità forte e vissuta consapevolmente. L’altro problema è quello demografico. Ma il rischio della nostra scomparsa e della chiusura delle nostre istituzioni non può essere risolto con una apertura irriflessa o con conversioni formali. Questa linea non sarebbe conforme alla Tradizione ebraica, e non farebbe neppure il bene di coloro che sono alla ricerca di una coerente e coscienziosa assunzione di identità ebraica. Sarebbero gherim utili solo a risolvere, e solo in parte, un problema demografico. Non si risolverebbe così anche il problema dell’assimilazione e della riassunzione di una identità forte.
I nostri Maestri , anche tra coloro che più si riconoscono nel principio dello “Zera Israel”, “ascendenza ebraica patrilineare”, ribadiscono come i vincoli “etici ed educativi” risultino essere più “specificanti” e “caratterizzanti” di quelli biologici e di “sangue”. Se così non fosse il
“ghiur” non potrebbe essere neanche preso in considerazione. In questo senso si sono espressi anche il rav Amsalem e il rav Korsia in occasione dei loro rispettivi interventi su questo tema in recenti edizioni del Mokèd Ucei.
La tradizione ebraica vuole evidenziare in ogni modo e con forza, anche con la forza del paradosso più estremo, l’importanza della formazione e dell’educazione, della cultura e dello studio; anche contro i possibili freni costituiti dal legame biologico.E del resto – per cercare di essere coerenti – non è proprio in forza dei valori “culturali” e negando il valore dei legami biologici che molti si battono per rendere più semplice il percorso di un ghiur, ossia di un passaggio all’alterità?
Soprattutto per questi motivi una conversione che non implichi anche le mitzwoth rischia di rappresentare una coercizione con sospette connotazioni di razzismo e di nazionalismo, come se a importare fosse unicamente l’appartenenza nazionale, etnica o razziale, e non tanto la condivisione di una cultura e di una prassi.
È necessario ribadire che la purezza del sangue non è mai stata una preoccupazione ebraica. Nell’ebraismo, l’orgoglio che deriva dalle proprie radici non consente che si coltivino illusioni di superiorità o pretese di privilegi in grazia dell’appartenenza etnico-religiosa, che è piuttosto un motivo di maggiori obblighi e responsabilità.
Si deve accettare che accompagnare un figlio di madre non ebrea verso il ghiur, significa preparare tutto il nucleo familiare, sia il genitore ebreo che la madre non ebrea, verso una consapevolezza incondizionata della strada intrapresa e dell’impegno preso con il Beth Din. La conversione del bambino/a richiede infatti una trasformazione radicale dell’atmosfera familiare che lo accoglierà. Da qui la necessità di coinvolgere entrambi i genitori nello studio e nell’applicazione delle mitzwoth, strumento fondamentale per esprimere il senso dell’ebraismo e comunicarlo ai figli. Il processo non può essere solo trasmissione di nozioni, sensazioni interiori e storia passata, ma deve attivare una prassi e un vissuto, per raggiungere l’obiettivo di quella che sintetizza tutto il processo, cioè la tevilà, l’immersione nelle acque del Miqwè.
Si tratta di accompagnare anche psicologicamente il singolo e la collettività a integrarsi e a integrare, evitando che l’incontro dia adito a tensioni e malintesi. Perché chi entra entri con passo leggero, e chi accoglie accolga a braccia aperte e senza riserve.
La conversione “consapevole” all’ebraismo presuppone l’ingresso del “gher” in una “nuova”
famiglia allargata, in una comunità nella quale si svolgerà la sua vita ebraica. Parlare del ghiur significa anche parlare del modello di famiglia, come anche della comunità in cui il convertito va a inserirsi.
E nemmeno le persone e le famiglie che hanno gà compiuto il ghiur possono essere lasciate sole. Il processo di inserimento comporta una partecipazione corale della Comunità.
Prima di procedere a una conversione la comunità tutta dovrebbe chiedersi: “ Quanto siamo in grado di amare e di accogliere il gher? Riusciamo a far sentire al gher che entra che la comunità è la famiglia in cui è rinato ? Avendo lui , di fatto, abbandonato la sua famiglia “biologica”? Non dobbiamo dimenticare che un gher non diventa membro della famiglia del rabbino ma la sua famiglia di riferimento diventa la comunità tutta e spetta quindi a questa il dovere di svolgere la sua parte. Non può quindi essere solo il rabbino l’unico modello!
Quale opportunità dare a un’aspirante gher di osservare le mizwoth se non lo si accompagna positivamente, con consapevolezza e con gioia, in questo processo di inserimento in una keillàh, per cercarvi quel calore umano e apprendere in presa diretta quel sentimento della “ahavat Israel” dell’amore d’israel (tout court), così centrale nella sua scelta?
Alle strutture educative e al rabbinato spesso le famiglie delegano tutta la responsabilità dell’educazione dei loro figli, esentandosi così dall’esercitare il loro compito di educatori in prima persona. Le famiglie abdicano troppo spesso al ruolo di modello ed esempio da cui l’educazione di bambini e ragazzi non può prescindere.
Così, il Rabbino viene spesso raffigurato come quel limite estremo di ebraismo da cui vale la pena apprendere cultura e nozioni, senza tuttavia mai cercare di imitarne l’azione.
Questo atteggiamento non è solo il fallimento di una struttura educativa e dei suoi obiettivi, ma il fallimento di una Comunità che può e deve accogliere l’altro che vi si avvicina. Non si fa vita ebraica in solitudine. L’ebraismo pretende società e collettività. Pretende il minian. E ben venga anche un minian che discute, dibatte e litiga, purché sia un minian vivo.
Resta da domandarsi se le nostre strutture comunitarie costituiscono oggi un valido riferimento per offrire a chi ne dimostra il bisogno un inserimento equilibrato e dignitoso nella realtà della vita ebraica.
Per aiutare l’ebraismo italiano a uscire da uno sterile dibattito polemico e da dannosissime divisioni, è forse utile iniziare dallo studio dei principi fondamentali e della situazione attuale. Ci si potrà poi chiedere quali percorsi educativi formali e informali si possano intraprendere, e come si possa tentare di unificare procedure e comportamenti mettendo fine a disomogeneità che provocano attriti, polemiche e imbarazzi, sia in relazione ai percorsi individuali, sia in relazione ai risultati identitari conseguiti.
La questione dei ghiurim, allora, coinvolge il problema stesso della nostra sopravvivenza e della qualità della stessa. E non tanto dal punto di vista demografico. Credo sia venuto il momento di scegliere tra una accettazione di sopravvivenza allo status quo e una volontà di sviluppo culturale e interiore. Le Comunità italiane nel loro insieme, in particolare quelle piccole, devono scegliere se il problema fondamentale per loro sia sopravvivere nel loro stato attuale, in condizioni culturalmente, religiosamente e generalmente non troppo favorevoli, o se non valga la pena impegnarsi per un coraggioso potenziamento delle strutture educative e culturali, a livello locale e nazionale, così da consentire all’ebraismo italiano di sperare in un possibile sviluppo.

Roberto Della Rocca, rabbino

(10 maggio 2016)