La relazione conclusiva
del Presidente Gattegna
Affrontiamo il mare aperto

gattegnaCari Consiglieri, cari amici,
 
siamo giunti al termine del mandato che è iniziato nel giugno del 2012 e questa è l’ultima riunione del Consiglio; siamo il primo Consiglio che ha sperimentato e collaudato gli effetti della riforma dello Statuto del 2010.

Su questa riforma, che ha creato il nostro piccolo Parlamento, ho ascoltato e ho letto le opinioni più disparate, sia positive che negative.

La mia valutazione è fortemente positiva perché ci ha dato la possibilità di vedere, per la prima volta, un ebraismo italiano unito e solidale, costantemente collegato e non solo nel corso degli incontri tra le ventuno Comunità in occasione dei Congressi.

Si compie tra pochi giorni il decimo anno della mia presidenza dell’Unione e voglio rendervi partecipi di alcune mie riflessioni e valutazioni di questi ultimi mesi, partendo da una breve introduzione di carattere personale.

Ho vissuto come un grande onore poter ricoprire per un periodo così lungo questa carica prestigiosa, significativa e coinvolgente per una persona come me che, per circa sessanta anni, ha lavorato per l’ebraismo e per le sue istituzioni, iniziando con le organizzazioni giovanili e proseguendo con il Consiglio della Comunità di Roma.

Ringrazio voi che avete onorato l’impegno assunto, voi che avete ricoperto attivamente, fino ad oggi, la carica alla quale siete stati eletti, per la possibilità che mi avete dato, accordandomi la vostra fiducia, di vivere questa esperienza entusiasmante, senza mai lasciarmi solo, ma condividendo tutte le responsabilità, anche e soprattutto nei momenti più difficili; rivolgo quindi un sentito ringraziamento a tutti voi Consiglieri, membri di Giunta e professionali, che ci avete affiancato.

Attraverso le riflessioni di questi ultimi mesi sono giunto anche alla conclusione che tutti conoscete, perché non ne ho mai fatto mistero, di non ripresentare la mia candidatura per le prossime elezioni del 19 giugno 2016.

Non sono né stanco né deluso, al contrario sono sereno e orgoglioso del lavoro svolto, ma sono certo che sia giunto il momento migliore per facilitare e assecondare un tranquillo e democratico ricambio al vertice dell’Unione e ritengo che abbia un preciso e positivo significato che il ricambio non avvenga sotto la pressione di fattori esterni, ma per una mia precisa scelta di chiudere una stagione della mia vita, favorendo un avvicendamento nella continuità e anteponendo così il bene dell’Unione e dell’ebraismo italiano a qualsiasi altra considerazione.

Nel redigere questa relazione conclusiva ho pensato che fosse utile una sintetica trattazione dei temi che considero attuali nel periodo storico che stiamo attraversando.

Tutte le Costituzioni degli Stati democratici sono ispirate e contengono il principio della laicità, inteso come netta separazione tra lo Stato e le Istituzioni e le organizzazioni confessionali.

In ogni caso una netta distinzione tra leggi civili e regole religiose, storicamente, si è sempre rivelata la più forte garanzia per il rispetto dei principi di libertà ed eguaglianza, soprattutto per le minoranze, in quanto nessuna ideologia o religione può essere privilegiata o sfavorita.

Viene spontaneo domandarci se queste concezioni della democrazia e della laicità siano ancora attuali di fronte alle grandi sfide che l’umanità si trova a fronteggiare e che derivano dalla coesistenza all’interno delle stesse entità nazionali e sovranazionali, di identità, etnie e religioni che si riconoscono in principi e valori tra loro contrastanti.

Se ogni comunità esistente all’interno dello stesso contesto sociale pretendesse di rimanere chiusa in sé stessa e tesa a realizzare al proprio interno una totale omogeneità di idee e di comportamenti, sarebbe inevitabile un progressivo irrigidimento delle posizioni e un’accentuazione dei contrasti e dei rischi di conflitto.

È necessario che nelle società contemporanee si proceda a un aggiornamento di questi principi; non sembra più sufficiente che gli Stati garantiscano la libertà e l’eguaglianza fra i cittadini, si sente la necessità che si fissino anche le regole e si garantisca la possibilità che tra le varie componenti si svolga un pacifico e produttivo scambio culturale.

Nel secolo scorso milioni di ebrei sono emigrati o fuggiti verso l’Europa occidentale, le Americhe ed Israele divenendo parte integrante e costitutiva di società nelle quali è certo indispensabile conservare la propria identità, ma anche uscire fisicamente e psicologicamente dai ghetti, imparare a convivere, comunicare, integrarsi in società libere e aperte nelle quali, in senso non retorico e non teorico, la varietà è vera ricchezza e le diverse ideologie, teologie e tradizioni convivono in pace, con pari dignità e reciproco rispetto.
 
L’ebraismo deve conservare le sue caratteristiche originarie di rifiuto di qualsiasi forma di idolatria e di conciliare rigore e flessibilità, lasciando, come il Talmud insegna, ampi spazi alla dissertazione filosofica, alla ricerca scientifica e alla libertà di interpretare e sviluppare il dibattito come valore positivo e irrinunciabile, rispettando le diverse correnti di pensiero, ma conservando sempre la capacità di riportare tutto all’unità.

Le forme di chiusura e ripiegamento in se stessi, adottate nei secoli scorsi dai nostri antenati per autodifesa, appaiono superate, inutili e dannose in un mondo globale nel quale confini e barriere si sono fortemente affievoliti e non esistono più microcosmi impenetrabili e incontaminabili.

Un futuro dell’ebraismo che sia degno dei suoi valori universali e delle sue gloriose e plurimillenarie tradizioni non potrà esistere senza l’uscita da qualsiasi forma di isolamento, uscita alla quale siamo insistentemente chiamati dalle società contemporanee e democratiche nelle quali viviamo e delle quali siamo parte integrante.

Sarebbe un’illusione antistorica, un errore fatale, la perdita di un’occasione unica, e forse irripetibile, se ci sottraessimo all’apertura e al confronto che, si badi bene, sono cose ben diverse, anzi opposte, all’assimilazione; sono infatti prove di fiducia in noi stessi e stimoli al rafforzamento della nostra cultura e della nostra identità per poter essere all’altezza di qualsiasi sfida o confronto e in tal modo sconfiggere, una volta per tutte, quell’insegnamento del disprezzo che non è ancora completamente debellato.

Per noi è opportuno e necessario uscire dai porti, solo apparentemente sicuri, staccarci dagli ormeggi fissi e statici e affrontare coraggiosamente il mare aperto guidati con prudenza e con saggezza dai nostri Maestri; navigare nel mare aperto può sempre comportare rischi e riservare sorprese, ma non esistono alternative se si vuole continuare a partecipare e contribuire, come protagonisti, all’evoluzione della civiltà contemporanea e al tempo stesso riscoprire continuamente la nostra forza interiore.

La nostra forza dovrà esprimersi, d’ora in avanti, indirizzando il nostro popolo fuori e lontano dai ruoli contraddittori che chi non ci ama tende da secoli ad attribuirci, di vittime, di sfruttatori, di arroganti e spietati usurpatori.
 
Noi ebrei, anche sulla base della nostra esperienza storica, dovremmo rifuggire da qualsiasi tentazione all’estremismo, alla faziosità, alla chiusura in noi stessi, all’isolamento culturale, al verbo unico, ai dogmi; dovremmo combattere il fascino insidioso della demagogia ideologica e verbale, sia teorica che pratica.

Estremismo e demagogia sono figli della paura e si nutrono di banali, arbitrarie e volgari semplificazioni, alterano le relazioni umane, inducono al pregiudizio e all’odio nei confronti del diverso, stimolano alla continua e perenne ricerca di nemici veri o immaginari, alla diffidenza verso gli amici, all’alterata visione di una realtà sempre e solo bianca o nera, senza sfumature.

L’estremismo del linguaggio, l’uso sconsiderato di provocazioni verbali, non toccano solo aspetti di pura forma perché producono effetti traumatici e danni reali e concreti, sviluppano la tendenza a demonizzare non solo gli avversari, ma spesso anche gli amici se chiedono uno spazio per il dialogo o una maggiore apertura.

Se un simile degrado si presentasse fra noi dovrebbe essere duramente contrastato ricordandoci che, secondo le Legge ebraica, nessuno ha il diritto di affermare di essere un’autorità suprema depositaria della verità e che nessuno è titolare del potere assoluto e indiscutibile di accogliere o di escludere chiunque.
 
Fondamentalismo e integralismo non sono termini equivalenti, anche se frequentemente vengono abbinati e confusi.

La differenza emerge chiaramente se si risale alla loro origine storica ed etimologica.

Nonostante le differenze, sia il fondamentalismo che l’integralismo, aspirano alla costruzione di società e di stati teocratici nei quali tutti i poteri, legislativo, esecutivo e giurisdizionale siano ispirati e sottomessi a un solo potere religioso.

Appare ogni giorno più evidente quali siano le drammatiche conseguenze che derivano dal rifiuto dei principi di democrazia e di laicità dello Stato, i soli che possono assicurare parità di diritti e dignità fra maggioranze e minoranze, fra credenti e non credenti, fra cittadini e stranieri.
 
Non ho la pretesa di aver esaurito gli importanti argomenti che ho appena accennato ma il mio compito era oggi di sottoporvi una relazione che contenesse una sintesi delle linee guida che hanno ispirato la mia e la nostra azione negli ultimi quattro o dieci anni e che fossero, a mio giudizio, ancora validi e attuali per l’immediato futuro.

Grazie per l’attenzione e la pazienza con le quali mi avete ascoltato.

Renzo Gattegna

Presidente UCEI

(15 maggio 2016)