JCiak – Una settimana e un giorno

one-week-and-a-day-onlineAncora una volta il festival di Cannes premia il cinema israeliano. È Asaph Polonsky, al suo debutto con One week and a Day – Shavua Veyom, che racconta cosa accade quando dopo i sette giorni di lutto stretto si torna alla routine, a spuntare il Prix Fondation Gan à la diffusion della Settimana della critica. Eran Kolirin e Maha Haj, in concorso rispettivamente con Beyond the Mountains and Hills – Me’ever laharim vehagvaot e Personal Affairs – Omor Shakhsiya, malgrado l’apprezzamento della critica, si avviano invece a mani vuote nella nuova stagione dei festival.
Nel film di Asaph Polonsky il lutto è quello devastante di una coppia in là con gli anni che ha perso un figlio. I due reagiscono in modo opposto. Lei (Evgenia Dodina) tiene a bada il dolore immergendosi nella routine. Sistema la casa, va dal medico, rincorre le scadenze: ogni commissione è buona pur di non pensare. Lui (Shai Avivi) lascia invece andare ogni inibizione. Litiga con i vicini, sperimenta la cannabis, fa amicizia con il figlio dei vicini, zampetta assieme al gatto. Gli inevitabili scontri fra marito e moglie e l’umorismo di tante situazioni strappano la risata, anche se non mancano – non potrebbe essere altrimenti – i momenti di commozione.
One Week and a Day conferma in modo brillante che mai si ride tanto e così di cuore come al cospetto della morte e che, trasposta sul grande schermo, la potenza rituale della shiva ha un effetto dirompente. A evocarla aveva provveduto Shiva (2008) di Ronit e Shlomo Elkabetz che esplora tensioni e conflitti di una grande famiglia di origini marocchine nei sette giorni di shiva per un fratello.
Più di recente la morte era stata raccontata con humor dolce amaro da Sharom Maimon e Tal Granit in The Farewell Party – Mita Tova (2014), in cui un gruppo di amici costruisce una macchina per l’eutanasia in una casa di riposo a Gerusalemme e si trova a fare i conti con un successo imprevisto.
Diversa l’ambientazione di My Mexican Shivah (2008) di Alejandro Springall che immaginava i sette giorni di lutto stretto nel quartiere ebraico di Mexico City, riuscendo nell’impresa di rimescolare morte, conflitti, rituali ebraici e una band mariachi, senza dimenticare qualche tocco surreale.
Ancora diverse le corde su cui giocava This Is Where I Leave You (2014) di Shawn Levy, basato sull’omonimo romanzo di Jonathan Tropper – tradotto in italiano con Portami a casa (Garzanti, 2010). Il film narra di quattro fratelli che dopo molti anni si rincontrano per la Shivah del padre con un’ironia che oscilla tra Woody Allen e Philip Roth. Ma anche qui, nei sette giorni della shiva si accendono nuovi e antichi affetti, si litiga, si ride. La vita continua, travolgente come la madre interpretata da Jane Fonda che, pure in là con gli anni, ancora è capace di stupire i suoi figli adulti.

Daniela Gross

(26 maggio 2016)