Uomini e animali
Non poco scalpore ha destato, alcuni giorni fa, l’ammonimento del papa contro chi ama gli animali ma si disinteressa degli uomini (immediata l’ira funesta dell’Associazione Italiana Difesa Animali e Ambiente, la quale ha redarguito il papa invitandolo a pensare, piuttosto, alla pedofilia nella Chiesa, tema che a dire il vero mi pare gli sta a cuore più che alla Cei, visto che non più di tre mesi fa Francesco ha accusato le conferenze episcopali di non prevedere l’obbligo morale di denuncia degli abusi all’autorità giudiziaria).
Questo mi ha fatto pensare ad un articolo che avevo letto su La Stampa un mese fa circa, a proposito di ‘nuovi’ documenti conservati presso la biblioteca del nostro ministero per le Politiche agricole: le Gazzette ufficiali del Reich nazista, Reichsgesetzblatt, dalle quali emerge la già peraltro nota realtà del rapporto tra regime hitleriano ed animalismo. Il primo tentativo nazista di prendere provvedimenti contro la crudeltà sugli animali, e curiosamente (ma non tanto) contro la macellazione casher, sembra risalire già al 1927. D’altro canto, in Italia l’antisemitismo di Stato si afferma anche in questo ambito, introducendo con le leggi razziste il divieto della macellazione rituale ebraica, dall’ottobre del 1938. Ad ogni modo, alla fine del novembre del 1933 nella neonata Germania hitleriana, invece, viene emanata una moderna e innovativa legge sui diritti degli animali la quale mira a sanzionare la crudeltà verso gli animali e a limitare la vivisezione, mentre provvedimenti successivi regolamenteranno in maniera più severa l’attività venatoria ed introdurranno provvedimenti a salvaguardia della natura.
Animals in the Third Reich. Pets, Scapegoats, and the Holocaust di Boria Sax (Yogh & Thorn Press 2013) offre un’interessante chiave di lettura affrontando l’argomento in relazione al restringersi dei confini tra animali ed uomini nella concezione nazista, e al rimpicciolirsi dello spazio morale per il rispetto degli esseri umani considerati biologicamente inferiori e quindi indegni di far parte del Nuovo Ordine europeo, ovvero quel progetto di ristrutturazione sociale in popolo eletto, popoli inferiori schiavi ed untermenschen indegni di vivere, come ha magistralmente illustrato Enzo Collotti. Nessuna incoerenza, insomma: il regime nazista difendeva i diritti degli animali, valorizzando soprattutto le razze nobili e fiere, mentre al contempo vivisezionava, usandoli come cavie di esperimenti pseudoscientifici, esseri umani che non riteneva tali.
L’argomento è fastidioso, al pari della questione delle malattie eponimiche scoperte da medici nazisti: da diversi anni si discute dell’opportunità di cambiare nome a patologie studiate da scienziati immorali, deontologicamente scorretti o assassini – noto il caso del medico austriaco Hans Eppinger, che diede nome a due patologie ma il cui successo professionale dipese in gran parte da esperimenti disumani condotti su prigionieri Rom a Dachau. Negli anni Settanta gli fu intitolato un premio ed un cratere lunare ricevette il suo nome, ma sia pure con tempi molto lunghi entrambi furono revocati quando le sue attività di carnefice in camice bianco divennero note.
L’eugenetica del resto era diffusa anche nel mondo democratico, e politiche di sterilizzazione forzata volte a rimuovere i caratteri considerati negativi nella selezione della specie umana furono condotte non solo nella Germania hitleriana ma negli Stati Uniti sino alla fine degli anni Settanta, nei Paesi scandinavi e in Canada più o meno negli stessi anni. Diversi medici nazisti a loro volta continuarono a lavorare alle stesse ricerche che conducevano su cavie umane in lager anche dopo la guerra, in altri Paesi: tra gli altri, ricordo Carl Peter Vaernet, medico danese delle SS dedito a ‘curare’ l’omosessualità maschile con terapie ormonali che fecero morire diversi detenuti e ne menomarono molti altri; fuggito in Argentina dopo la fine del Secondo conflitto mondiale continuò a lavorare e collaborò con il suo nuovo Paese in ricerche analoghe, lasciando in eredità al figlio Kjeld il compito di continuare a studiare cure ormonali dell’omosessualità (per inciso, Carl Vaernet morì conosciuto per il proprio passato ma indisturbato nel suo letto).
Tutto ciò mi riporta alla mente la questione opposta a questa del male travestito e occultato: antiche discussioni di una coppia che conoscevo, il cui matrimonio poteva vacillare non per la trascuratezza in cucina o la mancanza di tempo da condividere, ma sulla vexata quaestio se Luigi Pirandello fosse o meno fascista. Pirandello aderì al fascismo quando non era proprio più possibile farlo, ovvero dopo il delitto Matteotti. Ma che tipo di adesione fu questa? La sua adesione al fascismo, in un momento in cui molti ne uscivano stracciando la tessera come atto di denuncia e venendo sprezzantemente irrisi come ‘quartarellisti’ (dal nome del luogo in cui fu ritrovato il corpo del deputato socialista), che cosa significò? Inficiò in qualche modo il valore della sua produzione letteraria? Come giudicare l’opera di un intellettuale che ebbe cadute morali? Dipende forse da quanto gravi furono queste cadute, ma come possiamo stabilire un confine? E’ sufficiente contestualizzare, ad esempio leggere Ezra Pound con un’introduzione critica che ne ipotechi il giudizio? La musica di Richard Wagner può forse essere ascoltata prescindendo dalla strumentalizzazione che il nazionalsocialismo ne ha fatto, ma ben altro è accostarsi all’opera di Leni Riefenstahl che del Terzo Reich è stata regista. Martin Heidegger era un fervente nazista ed antisemita, e nonostante il suo esistenzialismo fosse inviso all’ideologia hitleriana, indiscusso fu il suo operato di nazificazione delle istituzioni universitarie: che fare dunque con lui?
Più banalmente, nei casi prosaici della vita quotidiana, difficile è già solo accettare una valida insegnante la quale è eticamente debole: le nostre azioni e il nostro porci verso il prossimo, in toto, parlano per noi.
Sara Valentina Di Palma
(26 maggio 2016)