Il discorso dell’odio

vercelli Forse, oltre a continuare a parlare di pregiudizio e di odio, dei loro contenuti e del ripetersi come se fossero una dannazione ineludibile, sarebbe bene iniziare a ragionare anche sui modi e sulle forme che l’uno e l’altro assumono. Non di meno, delle piattaforme che li veicolano, destinate a dargli corpo e sostanza. In altre parole, si tratta della modernità dei risentimenti quand’essi si trasformano in una vera e propria pretesa di interpretazione della realtà. Nel caso dell’antisemitismo, in tutte le sue declinazioni, la questione si pone nella sua grande urgenza. Ci sono senz’altro due orizzonti problematici, che vanno a sommarsi a quelli preesistenti: quella parte del mondo musulmano che traduce l’estraneità nei confronti d’Israele in avversione e, quindi, in rifiuto sistematico dell’ebraismo, quest’ultimo connotato come “sionista” (parola che non incorre nelle censure che, invece, tradizionalmente sono imposte ad altre espressioni, almeno in Europa e negli Stati Uniti); il mare magnum del web e delle relazioni virtuali, ossia veicolate attraverso l’ambiente dell’informazione e delle comunicazioni a distanza, immateriali poiché basate sulla non fisicità di coloro che immettono nella rete opinioni, idee, impressioni ma anche ben altro. Il tema del “hate speech” (del discorso dell’odio, ma anche del discorso odioso, poiché diffamante) è oramai divenuta una nuova frontiera non solo dei vecchi razzismi, destinati in tale modo comunque a rigenerarsi, ma anche di nuovi, inediti livori. Si tratta di una questione molto articolata, complessa, ben più delicata di quanto non possa apparire ad uno sguardo sommario. In essa, infatti, entrano in gioco non solo gli abituali contenuti che alimentano l’avversione precostituita nei confronti di qualcuno o verso qualcosa ma le forme di diffusione, non a caso definita virale, dei nuovi pregiudizi. Più in generale, l’odio online richiama il rischio dello sdoganamento degli atteggiamenti privi di qualsiasi senso del limite, capaci di coalizzare intorno a sé un buon seguito di assensi proprio perché basati sull’enfasi, sull’aggressività, sull’avversione a prescindere. Lo stesso passaggio dai tradizionali temi dell’antisemitismo a quelli dell’antisionismo, quando quest’ultimo raccoglie, travasandoli in sé, i filoni di fondo più tradizionali ed abituali del pregiudizio contro gli ebrei, deve fare i conti con questo stato delle cose. E si tratta di conti molto difficili, in quanto l’oste, per usare la nota metafora, è lo stesso ambiente virtuale, il web. Il quale risulta essere nel medesimo tempo contenitore e moltiplicatore di contenuti “odiosi”, per via della sua interna architettura, basata, tra le altre cose, anche e soprattutto sulla ripetibilità, sull’immaterialità, sulla immediata trasmissibilità, così come su una sorta di gioco permanente tra evanescenza (dei corpi, delle fonti, dei riscontri) e tangibilità di ciò che viene scritto e detto (le cose messe in circuito non solo stanno lì ma vengono riprese e riprodotte, potenzialmente all’infinito). Mentre il web, in questo caso, ha una sua credibilità che non si basa sulla verifica bensì sulla ripetizione del medesimo contenuto, di cui si fa cassa di risonanza, l’autorevolezza delle istituzioni tradizionali, a partire da quelle formative, come la scuola, tende ad essere fortemente ridimensionata. Si tratta di un processo tanto delicato quanto diffuso, dentro il quale le nuove forme di antisemitismo trovano un contesto favorevole. Dopo di che, se la sfida ha queste dimensioni, è evidente che bisogna ripensare alle forme e ai modi con i quali rispondere. In parole più semplici e chiare: pensare di fermare il fenomeno, molto diffuso, del ”hate speech” con il ricorso a misure repressive, soprattutto di natura penale, quand’anche sia necessario e quindi doveroso, rischia comunque di risultare, alla prova dei fatti, poco o per nulla sufficiente. È la classica situazione nella quale si cerca di svuotare l’oceano con un cucchiaino. La pervasività e la permeabilità della rete sono tra i suoi strumenti di forza ma anche quel terreno poroso attraverso il quale passano i peggiori contenuti. Poiché l’odio è un collante molto forte nelle relazioni interpersonali che si svolgono in un ambiente virtuale, tanto più se si ha a che fare con i social network. Non costituisce un fenomeno collaterale, occasione, una sbavatura o una scontornatura rispetto al già detto, al galateo delle comunicazioni rispettose della reciprocità. Semmai è come una sorta di catalizzatore, che dà un senso tanto apparente, e quindi effimero, quanto appagante a ciò che altrimenti parrebbe privo di significato. Soprattutto in un circuito dove non solo l’immaginazione e le immagini ma l’immaginario stesso hanno una potenza invasiva tale da sostituire al mondo delle cose concrete e delle persone in carne ed ossa una serie di costruzioni mentali, di proiezioni percettive ed emotive, una successione di stati d’animo. Cristallizzando infine il tutto in una sorta di ossificazione ideologica, dove alla comprensione dei meccanismi della vita associata si sostituisce invece la ricerca permanente di un capro espiatorio. A scorrere, anche solo velocemente, la montagna di comunicazioni che si succedono ogni giorno in un social network, si coglie ben presto come l’aggressività latente sia facilitata a tradursi, quasi da subito, in esibizione del rifiuto altrui (che si tratti dell’opinione divergente come del fatto stesso che ci sia un qualcun altro che dice qualcosa) e poi in manifestazione permanente di ostilità. Il ruolo che non pochi “naviganti” online si attribuiscono da sé è quello di giudici inappellabili in assenza di prove. Fingono di cercare un qualche contradditorio ma esclusivamente per alimentare la tensione e per meglio identificare i propri obiettivi, contro i quali esprimere i peggiori strali. Non è solo una questione di “cattivi sentimenti”, di idee sbagliate, di mancanza di conoscenza ma, piuttosto, di risarcimento emotivo che il risentimento sa offrire a chi – e sono in tanti – cerca una specie di risposta a domande che spesso non riesce neanche a formulare in maniera compiuta. Il web, per la sua conformazione virtuale, è al contempo un habitat adatto a contenere tali spinte e una sorta di realtà extrafattuale, ossia indipendente dai fatti medesimi, in quanto si pensa ed è vissuto come una sorta di mondo autosufficiente. Questo risultato è tanto più enfatizzato dal momento che la realtà quotidiana può apparire invece inappagante, incomprensibile, estranea ai desideri e alle speranze. Il ”hate speech” canalizza, indirizzandola, una tale insoddisfazione. La coniuga al rifugio in un ambiente fatto di suggestioni pseudointellettuali, dove non esiste nessuna autorevolezza delle fonti e dei riscontri ma solo la ripetizione ossessiva di una presunta “verità”, la propria, che per il fatto stesso di essere dichiarata parrebbe convalidarsi da se medesima. La questione del nesso tra antisemitismo e antisionismo va quindi riformulata anche alla luce di questa “viralità”, dove alla circolazione di un grande numero di particelle di informazione sospese in un vuoto di codici di interpretazione (se non addirittura al loro rifiuto), alla cacofonia delle parole infinitamente ripetute, sotto le quali si trascina una rabbiosità incontenibile e volutamente incontrollata, si celano vecchi e nuovi pregiudizi. Meglio quindi risparmiarsi le condanne preventive e compiaciute, tecnofobiche (il mezzo, di per sé, non è mai negativo ma non può neanche essere ritenuto neutro a prescindere), come anche le ingenuità di chi pensa che ciò che viene definito in quanto “moderno” sia sempre e comunque sinonimo di buono, valido e senz’altro profittevole (anche qui a prescindere). Sempre più spesso la virtualità, intesa come rete di relazioni a distanza, dove può trovare uno spazio di autolegittimazione l’odio anonimo, quello che si basa non sulla possibilità di non essere identificati ma sulla capacità di colpire nel mucchio gli “altri da sé”, per ferire di più e peggio, sarà il territorio nel quale si rigenererà la saldatura tra antisemitismo, antisionismo, fondamentalismi di varia risma e populismi degeneranti. Le relazioni immateriali, quelle che circolano attraverso la rete, sono d’altro canto divenute per tanti l’alternativa alla crisi della politica, al suo ridursi ad esercizio professionale per piccole élite. Ed è forse da quest’ultimo punto che si deve partire per comprendere il perché, davanti all’immobilismo delle nostre società, destinate a subire gli effetti dei cambiamenti senza esserne protagoniste, si rinforzi la strada del pregiudizio più odioso. Sapendo che quest’ultimo è come se dicesse, dinanzi allo smarrimento di molti nostri contemporanei: “se il presente ti sembra incomprensibile e il futuro minaccioso hai una chance rifugiandoti in un passato che ritorna, quello dell’avversione come strumento di condivisione di un comune sentire dettato dal risentimento”. Si tratta di una forma perversa di legame sociale, moralmente discutibile, se non ripugnante, ma senz’altro in grado di creare assenso in quegli individui che, non sapendo più come guardarsi serenamente allo specchio, lo osservano di soppiatto cercando la fisionomia del nemico nei tratti del proprio sé deformato e manipolato.

Claudio Vercelli

(29 maggio 2016)